Mappali 309 e 310

Prima del 1851 il mappale 309 – orto con gelsi, con diritto di piantare sugli incolti lembi della valle – proprietario è Cristoforo Ghitti dei Pestù fu Cristoforo e Guerini Apollonia. Nel 1851 il Ghitti lo vende a Sina Marco…

Descrizione

Mappali 309 e 310

Fabbrica di coperte e, poi, conceria, Pèlaterìa, via Piazze

Mappali 309 e 310

Fabbrica di coperte e, poi, conceria, Pèlaterìa, via Piazze

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La planimetria mette in evidenza il complesso dei canali che afferiscono l’acqua alla ruota, partendo da una vasca di raccolta posta sotto il mappale 150, con scaricatore e sfioratore, un tratto di canale in direzione nord-ovest, che si dirige verso lo stabilimento, raggiunto il quale finisce sulla parte superiore della ruota.
Il pelo di carico dell’acqua è a quota +213,77 e quello di scarico a +203,60; da qui l’acqua si dirige verso lo stabilimento Perani, passando sotto il livello della strada e sboccando nella vasca di raccolta delle acque che provengono da Ariolo servendo il molino Panigada.

La storia catastale

Prima del 1851 il mappale 309 – orto con gelsi, con diritto di piantare sugli incolti lembi della valle – proprietario è Cristoforo Ghitti dei Pestù fu Cristoforo e Guerini Apollonia. Nel 1851 il Ghitti lo vende a Sina Marco.
«L’orto con gelsi, […] acquistato da Cristoforo Ghitti con atto 14 maggio 1851, in mappale indicato col 309 di are 2,50 e di rendita lire 1,64» – nel 1873 passa da Sina Marco a Turla Angelo di Francesco contestualmente all’acquisto da parte del Turla del mappale 131. L’orto confina a mattina parte sorelle Quetti-Tosetti predette e parte Cuter [mappale 151]; a mezzodì dugale; a sera strada comunale, Tosetti, ossia Valle del Gelone con ingresso compreso; a monte su due lembi di valle, un zerbo con gelsi e vimini, nel quale ha diritto di piantare il proprietario dell'orto».
Francesco Turla detto Angelo il Seniore è – oltre che proprietario del mappale 131, filatoio ex-mulino dei Pestù – nel 1879 è socio, con Fonteni Giacomo e i fratelli Cuter, della ditta che (nell’attuale mappale 114), con una sola ruota di mulino collegata a una turbina, produce elettricità che muove una macina di olio, una filatura di lana e due macine di cereali.

Nel 1885 proprietari del mappale 309 sono Turla Angelo fu Francesco e Fonteni Giacomo fu Antonio che lo vendono a Tempini Cristoforo fu Giacomo. A questa data il mappale è ancora « orto con gelsi, con diritto di piantare sugli incolti lembi della valle».
Nel 1897 la proprietà passa da Tempini Cristoforo ai fratelli Sbardolini Bonomo e Giacomo, cugini del Tempini poiché figli di Tempini Erminia fu Giacomo.
L’immobile è, probabilmente, costruito in questo lasso di tempo [1885-1897], come si può desumere dalle mappe catastali, probabilmente per essere destinato alla produzione di coperte (nel 1877 la ditta Tempini & C. le produce con 16 operai e quella di Bonomo Sbardolini con 30). In questo stesso periodo l’area del mappale 309 è accatastata nei mappali 1381 e 1380 (le rive su cui c’era il diritto di piantumazione) e 310 (stabile e terreni contigui al fabbricato). Con il catasto unitario vi sarà una nuova numerazione 309 (stabile), 1114 e 1381 (piccole porzioni delle rive su cui c’era il diritto di piantumazione) e 310 (terreni limitrofi al fabbricato).
Il mappale 310 passa, prima del 1901, ai Cuter che lo adibiscono a fabbrica di coperte, con 30 operai.

Nell’atto di costituzione del Consorzio dei vasi Festola e Ariolo del 1897 i mappali 309 e 310 non figurano e tanto meno nel foglio degli utenti del Vaso Festola in data 1879.
Il mappale 309 compare invece nel 1938 nei disegni planimetrici del Fontana, intestato alle I.T.B.

La Conceria Gavezzoli

L’attività della Conceria Gavazzoli ebbe inizio tra il 1920 e il 1930 ed ebbe termine qualche anno dopo l’alluvione del 1953.
Fino agli anni Cinquanta titolare dell’azienda era la famiglia Gavezzoli; successivamente, e per pochi anni, il genero Danilo e il signor Balottelli. Chiusa l’attività maronese, la famiglia Gavezzoli continuò la sua attività a San Vigilio di Concesio.
L’immobile era di proprietà delle Industrie Tessili Bresciane.

Mappali 309 e 310: le immagini dell'oggi
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Le testimonianze

Dice Giacomo Felappi: «Di quell’edificio mi colpirono sempre, da quando andavo alle elementari, la grandiosità, l’odore acre delle pelli fresche poste a fianco del Bagnadore e la ruota, mossa dall’acqua che vi giungeva da un canale appiccato alla roccia e che prendeva acqua dopo la falegnameria Pennacchio. Era di metallo, di ferro, enorme, posta sulla parete cieca rivolta a Ponzano e il suo girare era lento e possente: mi dice il signor Pietro Pierì Gaioni, che per alcun tempo vi lavorò, che aveva un diametro di 10 metri e un peso di 100 quintali Rimase lì su quella parete fino agli anni 1980-85, quando Santo Comelli, come robivecchi, la prelevò, la smontò pezzo per pezzo e la vendette come rottame».

«Una volta» racconta Pietro Pierì Gaioni «si ruppe improvvisamente la cinghia di trasmissione e la ruota si era messa a girare da quel momento a vuoto: in pochi momenti prese una tale velocità che spruzzava l’acqua su tutti i tetti delle case di Piazze e buon per loro che non si staccò dal suo supporto, se no alla velocità che aveva acquista to si sarebbe abbattuta sulle case distruggendole fino al lago».
«Arrivavano a Marone pelli di animali da tutte le parti del mondo» continua Pietro Gaioni «pelli seccate; qualcuno dice conservate nel sale.
Ma molte erano pelli fresche, di animali abbattuti da poco, anche dai macellai di Marone; personalmente ricordo che andavo dal macellaio Berardi Dolfino nella macelleria di via Trento e caricavo la carriola, che spingevo oltre il passaggio a livello, passavo a fianco del lavatoio e alla fontanella di fronte a casa Panigada e dopo il portico di casa Gorini raggiungevo la conceria.
Raccomandavamo al macellaio di non scuoiarla troppo e di lasciarci sopra qualche pezzetto di carne qua e là, che ci avremmo pensato poi noi a ripulirla per bene: quanti bei brodini caldi e saporiti bevemmo. Allora c’era mica tanto da cantarla alta.

La prima operazione era di ammorbidire le pelli secche, mettendole dentro le vasche in ammollo per il tempo necessario a seconda delle diverse necessità: quelle fresche venivano poi ripulite, stendendole sopra i tavoloni, passandoci sopra con dei lunghi coltelli a due manici, liberandole soprattutto del grasso.
L’operazione di ammollo aveva più o meno la durata di due/tre giorni.
L’operazione successiva di ulteriore e definitivo ammorbidimento, nonché di sterilizzazione, disinfezione e conservazione avveniva nel bottale o grossa botte dal diametro di quattro metri e più: erano dotate di due perni e giravano su sé stesse come ruote. Dentro erano piene di caeciù (Caéc’ = bastoncelli).
Dentro il bottale veniva versata una mistura di acqua, calcina, solfuri vari, preposti alla funzione di ammorbidimento. Una volta ammorbidite nella giusta misura le pelli erano risciacquate – sempre stando nella stessa botte – con diversi e abbondanti cambi d’acqua.
Un giorno, mentre le stavo pulendo dentro, una si mise in leggero movimento; allora mi irrigidii puntando sui piedi e le braccia e dopo alcuni giri riuscii a infilarmi nel pertugio d’uscita e a liberarmi, se no avrei fatto la fine di Attilio Regolo.
Le pelli venivano successivamente adagiate orizzontalmente, le une sopra le altre, in grandi vasche contenenti acqua ricca di acido tannico, di cui è ricco il legno di castagno: la quantità del tannino era graduata a seconda della necessità e sotto costante controllo.
Nel cuoio duro per suole di scarpe il tannino doveva penetrare tutto all’interno dello spessore; per altri tipi di cuoio solo sulle due facciate e non fino all’interno.
Il tannino lo si comperava allo stabilimento Ledoga di Darfo.
Una lavorazione particolare e diversa era riservata alle pelli per borsette.
Al primo piano dello stabilimento vi era l’attrezzatura per la stiratura: su grandi tavoli venivano stese ancora umide, venivano tirate a mano, curando particolarmente le estremità (la pelle che ricopriva zampe e testa), poi si dotavano di due ganci e stese al sole ad asciugare sulle lobbie o lunghi poggioli, che adornavano la facciata posta a lago.

Ritornavano sui tavoloni e qui le rullavamo per bene con un grosso e pesante rullo, spinto in su e in giù a mano, fino a che perdessero ogni anche più piccola piega e, infine, le depositavamo su una superficie piatta, le une sopra le altre, pronte ormai ad essere messe in commercio.
lo dormivo in conceria, mentre gli altri tre operai se n’andavano a casa loro; andai per un po’ di tempo anche a San Vigilio dove i signori Gavezzoli avevano comperato una vecchia filanda per trasformarla in conceria e dove nei piazzali immensi trovava posto anche lo smercio e la selezione delle “Pesche di Concesio” per il commercio con l’estero.
Qui a Marone la Signora Zucchi del negozio alimentari veniva su da noi in conceria per schiacciare el bacalà con il rullo: due o tre passatine e tutto era spiaccicato alla giusta misura: poi lei lo metteva a bagno per il venerdì! Aveva un profumino e un saporino quel baccalà! Eh, caro il mio maestro Felappi, che tempi!»

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