Il diario di Carlo Cristini dei Costantì

Nacqui a Brescia il 22 Gennaio 1924 da Cristini Costanzo, detto Costantino e Bonvicini Isabella…

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Il diario di Carlo Cristini dei Costantì

Nacqui a Brescia il 22 Gennaio 1924 da Cristini Costanzo, detto Costantino e Bonvicini Isabella.
Le origini della famiglia materna sono da ricercare nella provincia di Cremona (mio nonno venne infatti successivamente soprannominato il “Cremonese”). Per motivi a me sconosciuti i miei avi si trasferirono a Capo di Ponte, in Valle Camonica (Provincia di Brescia).
Mio nonno materno, Giovanni, non l’ho mai conosciuto: dai racconti di mia mamma so che faceva il mercante ambulante di chincaglierie (piatti, scodelle, tegami…) ed è morto a Marone (Provincia di Brescia), paese sul lago d’Iseo dove, con tutta la sua famiglia, si trasferì agli inizi del 1900.
Due sorelle di mio nonno (le prozie Teresa e Carolina) si trasferirono da Capo di Ponte a Marone nel 1908 per motivi lavorativi: Carolina era maestra d’asilo mentre Teresa lavorava come rammendatrice presso l’Industria tessile “Fratelli Guerini” (successivamente denominata “Industria Tessile Bresciana”), azienda produttrice di feltri.

Nel 1910 si trasferirono a Marone anche i miei nonni.
La nonna materna si chiamava Serini Afra: era casalinga e morì quando io ero prigioniero in Germania nel 1945. Era una donnina di statura media, esile ma non proprio né carina né gentile. Quando i nipoti (me compreso) andavano a giocare a casa sua, dopo poco tempo venivamo invitati a ritornare a casa perché troppo rumorosi.
I miei nonni materni hanno avuto nove figli: Isabella (mia mamma), Marta, Rina, Teresa, Giuseppa, Guido, Antonio (detto “Terzo”), Alfredo ed Elia. Le figlie femmine lavorarono tutte presso l’Industria Tessile Bresciana di Marone mentre i figli maschi svolsero vari lavori: lo zio Antonio (Terzo) era fornaio, lo zio Guido faceva il falegname, lo zio Alfredo era operaio presso l’industria Dolomite dove sfortunatamente è morto fulminato a causa di un incidente sul lavoro. Lo zio Elia non l’ho mai conosciuto poiché morì in prigionia a Mauthausen (Austria) durante la prima guerra mondiale (1914-1918), probabilmente a causa di una malattia.
Il nonno paterno si chiamava Cristini Giovanni; nacque a Marone e morì nel 1895 all’età di 38 anni. Lavorò presso la falegnameria di famiglia, fondata nel 1804.
La nonna materna si chiamava Guerini Martina ed era originaria di Vesto (frazione di Marone). Mia sorella Marta ha sempre sostenuto che la nonna fosse di origini nobili ma questo non ho mai avuto modo di appurarlo con certezza. Ebbero cinque figli: Costanzo (mio padre), Giuseppe, Chiara, Caterina e Carlo.

La zia Caterina lavorò presso l’Industria Tessile Guerini e morì prematuramente all’età di 30 anni. La zia Chiara, nata nel 1885 e morta nel 1951, si sposò ed ebbe tre figli (Giacomo, Maria e Rita).  Lo zio Carlo (da me chiamato “lo zio prete”) intraprese la carriera ecclesiastica: frequentò il seminario a Brescia e, non appena ordinato sacerdote (nel 1917), ricoprì il ruolo di curato un po’ a Marone ed un po’ in un paese della Val Trompia. Poi nel 1919 fu nominato parroco a Zone (comune a sette chilometri da Marone). Nel 1936 fu trasferito a Lovere, ridente località sulla sponda bergamasca del Lago d’Iseo, in qualità di parroco ed in seguito nominato monsignore. Nel 1947 fu trasferito a Capriano del Colle (Provincia di Brescia) dove rimase fino al 1961. A causa di una malattia cardiopatica dovette rinunciare all’incarico di parroco a Capriano e ritornare a Marone (precisamente nella frazione di Ariolo) dove ristrutturò una porzione di casa attigua a quella in cui viveva la mia famiglia.  La cantina originaria fu trasformata in una cappella. Alla sua morte lasciò casa, cappella ed il suo patrimonio in eredità alla parrocchia S. Martino di Marone. La nonna paterna seguì sempre il figlio Carlo nel suo peregrinare: morì a Lovere il 21 Gennaio 1945 quando io ero in prigionia in Germania. Lo zio prete, nato nel 1893, morì ad Ariolo nel 1966.

Infanzia

Ho trascorso la mia infanzia ad Ariolo, frazione di Marone; mio papà Costantino lavorava nella falegnameria di famiglia adiacente alla casa in cui abitavamo mentre mia mamma si prendeva cura della famiglia piuttosto numerosa composta da tre figli maschi (oltre a me, Giovanni ed Elia) e ben cinque figlie femmine (Marta, Caterina detta Catina, Afra detta Afrina, Giuseppina detta Iose e Teresa).
La falegnameria era inizialmente attrezzata con una combinata multiuso che fungeva da piallatrice, pialla a spessore, cavatrice, toupì e circolare; questi macchinari servivano per la produzione di serramenti, mobili, cornici, incastri per vetri. Alle dipendenze c’erano alcuni operai fissi tra i quali ricordo lo zio Guido (fratello di mia mamma), Giovanbattista Gheza (detto “Peppino”), Bruno Sina e un certo Danesi residenti a Zone, Giulio Turelli di Ariolo ed altri stagionali che ci aiutavano in caso di commesse urgenti.

I compagni di gioco erano contradaioli più o meno della mia età ed i giochi preferiti erano: mondo, gare con le “cicche” (biglie in terracotta) o partite a pallone. Il tutto si svolgeva lungo la strada sterrata principale. Le macchine a quei tempi erano davvero poche: in tutto il comune se ne contavano 5 o 6 ed erano per lo più di proprietà degli industriali o dei pochi che esercitavano la professione di “conducenti” e che svolgevano anche un ruolo di servizio pubblico.
Frequentai le scuole elementari “Margherita Guerini” a Marone dal 1930 al 1936. Ebbi diverse maestre tra le quali ricordo: la maestra Orsola di Vesto (frazione di Marone), la maestra Bettoni e la maestra Torcoli di Sulzano.

Tutti i giorni, prima dell’inizio delle lezioni, si andava alla messa per gli scolari (dalle 8:00 alle 8,30). Le lezioni iniziavano alle 8,30 e terminavano alle 11,30. Riprendevano nel pomeriggio alle 14,00 e terminavano alle 16,30.
Ricordo che una mattina decisi, con un paio di compagni di classe, di “bigiare” la messa per non interrompere la gara di cicche in corso. Frequentavo la quinta elementare. La nostra assenza alla celebrazione fu notata dalla maestra Orsola che decise di dare ai malcapitati una punizione esemplare. Ad uno ad uno fummo “invitati” a porre le mani sulla cattedra con il preciso obiettivo di essere bacchettati a dovere in presenza di tutti i compagni di classe. Io fui l’ultimo. Avendo tratto lezione dai miei predecessori decisi di giocare di anticipo: non appena vidi la maestra sollevare la “bacchetta”, girai le mani con il palmo rivolto verso l’alto e riuscii ad afferrarla, strapparla dalle mani della maestra, farla in più pezzi e gettarli dalla finestra. Questo gesto lasciò di stucco la maestra Orsola che certo non si aspettava da me, ragazzino tranquillo e diligente, tale reazione. Non ci furono, per mia fortuna, nefaste conseguenze.

Ho dovuto ripetere la seconda elementare a causa di malori e svenimenti frequenti che ebbero come conseguenza la perdita di diversi giorni di scuola. Il medico non riusciva a diagnosticare la possibile causa. Mia mamma disperata, non sapendo cosa fare, decise di andare in farmacia ad acquistare la “vermolina” un liquido che mi somministrò per circa due settimane al mattino; la funzione era quella di debellare i “possibili vermi” formatisi nell’intestino. Ho sempre pensato che la formazione di questa massa fosse dovuta ad un grande spavento avuto in seguito ad un incubo: una notte sognai che due carabinieri mi tenevano fermo mentre un terzo tentava di segarmi la testa con una sega a mano. Questa è sempre stata una mia convinzione… mai confidata a nessuno (almeno fino ad ora).
Ho dovuto ripetere anche la terza elementare perché mio papà, convinto antifascista, non volle darmi i soldi (5 lire) che la maestra Torcoli richiedeva alle famiglie per pagare la tessera fascista. L’anno successivo lo passai grazie al cambio di maestra: la nuova, Orsola Guerini, una single, molto religiosa ma non affatto simpatizzante per il fascismo! In terza, quarta e quinta elementare fui in classe con mio fratello Elia, un anno più giovane di me.
A partire dalla quarta elementare (quindi verso i 9-10 anni) sia io sia i miei fratelli al rientro dalla scuola (verso le 16,00) dovevamo aiutare gli operai della falegnameria nei piccoli lavori fino alle 19,00 circa. I compiti li svolgevamo nel breve intervallo prima del termine della scuola (soprattutto gli esercizi di matematica) mentre le altre materie le studiavamo la sera dopo cena in cucina.

A 13 anni terminai le elementari, dopo di che il 1° Ottobre 1938 iniziai la scuola di avviamento professionale all’Istituto Don Bosco di Verona, consigliato ai miei genitori dallo zio prete. Il primo giorno di scuola mi accompagnarono, in treno, mia mamma e mio fratello Giovanni che aveva da poco terminato la stessa scuola ed indirizzo. Avevamo una valigia contenente il corredo personale etichettato con il numero di matricola a me assegnato che sarebbe dovuto bastare per tutto l’anno scolastico. I libri e la cancelleria venivano forniti dall’Istituto che provvedeva ad inviare a fine trimestre il conto a casa dei miei genitori per il relativo pagamento, retta inclusa. Ad ogni studente veniva attribuito un numero di matricola riportato ai piedi del letto, sul corredo personale (cucito da mia mamma) e su tutti i documenti scolastici. Il mio numero era il 415 (lo stesso numero che era stata assegnato a mio fratello Giovanni). Il mio letto era ubicato all’interno di una camerata composta di circa 20-30 letti all’interno della quale dormiva, delimitato da una tenda bianca, l’assistente sacerdote.

La giornata tipo iniziava con la sveglia alle 6,00, poi mezz’ora di igiene personale e sistemazione del letto, Santa Messa e successivamente si andava in “studio”, un’aula grande dove ogni studente aveva il proprio banco e si dedicava ai compiti ed allo studio. Dalle 8,00 alle 8,30 colazione che consisteva in caffè e latte con pane fresco cucinato all’interno dell’Istituto. Dopo colazione si andava in cortile per la ricreazione che durava circa mezz’ora. Alle 9,00 si rientrava ed iniziava il “laboratorio” fino alle 12,00-12,30 ognuno nella propria specializzazione (meccanica, falegnameria, sartoria, calzoleria e tipografia). Gli insegnanti in questo caso erano Salesiani laici, la maggior parte ex allievi dell’Istituto. Il pranzo veniva consumato nel refettorio e non c’era possibilità di scelta. Veniva messa una pentola su ogni tavolo ed ognuno si serviva. Piatto unico per tutti! In aggiunta acqua ed un panino a testa.
Dopo pranzo una mezz’ora di ricreazione. Alle 14,00 riprendevano le lezioni pratiche in laboratorio fino alle 16,30; dopo la ricreazione (panino vuoto) iniziavano le lezioni teoriche con i sacerdoti ed assistenti che terminavano alle 19,00. Dopo cena (consistente nella maggior parte dei casi in una minestra di riso) un po’ di ricreazione in cortile e poi tutti a letto dopo aver recitato le preghiere nello “studio”. Questo dal lunedì al sabato. La domenica mattina messa alle 7,00, colazione verso le 8,30 e alle 10,00, accompagnati rigorosamente da un sacerdote, si faceva un giro in città o nei paesi limitrofi e si ritornava per il pranzo. Il pomeriggio gioco e tempo libero.
La maggior parte dei compagni di ciclo risiedevano in città; gli altri provenivano dalle altre province del Veneto, qualcuno dal Friuli e quattro dalla provincia di Brescia. Pesenti Rino da Cedegolo e tre da Marone (oltre a me, Felappi Renzo e Guerini Giovanni).
L’anno scolastico iniziava il 1° Ottobre e terminava a metà Giugno. Vacanze: dall’anti-Vigilia di Natale fino al giorno successivo all’Epifania. A Pasqua: dal giovedì santo al mercoledì successivo. Ho terminato l’avviamento nel Giugno del 1941.

Mio papà Costanzo

Mio papà Costanzo nacque ad Ariolo il 16 Agosto 1887. Frequentò le scuole elementari del paese (a quei tempi le elementari terminavano in terza; se non ricordo male l’allungamento fino alla quinta è stato introdotto dal governo Mussolini verso il 1922).
In quanto primogenito maschio seguì le orme del papà e del nonno lavorando nella falegnameria di famiglia (a quei tempi i lavori venivano svolti tutti manualmente senza l’ausilio di alcuna macchina!). La “bottega” era attigua all’abitazione ed entrambe situate nella frazione di Ariolo e di proprietà, per diverse generazioni, della famiglia Cristini. Ricordo che era l’ultima casa (in direzione Zone) della piccola frazione.
Mio papà era piuttosto severo ed autoritario soprattutto con le figlie femmine: la domenica dopo il catechismo tutte dovevano rientrare a casa. Contava i minuti necessari per coprire il tragitto a piedi. Un leggero ritardo si traduceva in una predica che non terminava mai. La mamma era un po’ più accomodante ma non osava mai contraddire il marito. Le marachelle non venivano riportate al marito poiché sapeva che la reazione sarebbe stata quella di iniziare una tiritera con tanto di morale.

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale mio papà aveva 27 anni; l’Italia è entrata in guerra il 24 Maggio del 1915. L’anno successivo (1916) fu richiamato alle armi e, data la professione, fu destinato all’arsenale Aermacchi di Coquio Trevisago, in Provincia di Varese, con il compito di occuparsi della manutenzione degli aerei da guerra che a quel tempo erano costruiti in gran parte in legno. Fu esonerato all’età di 21 anni dal servizio di leva in quanto figlio primogenito di madre vedova con tre figli a carico (il marito Giovanni era morto nel 1895).
Rientrò a Marone al termine del conflitto (4 Novembre 1918) che, come noto, fu vinto dalla triplice intesa (formata da Italia, Francia ed Inghilterra). Nel 1919, in seguito alla sconfitta, l’Impero Austro-Ungarico (Germania, Austria e Ungheria) capitolò e l’Italia si riprese Trento e Trieste.

Al rientro dalla guerra si sposò con Bonvicini Isabella che a quel tempo aveva 25 anni (nata il 5 Febbraio 1894 a Capo di Ponte). I progetti iniziali erano quelli di sposarsi nel 1916 ma gli eventi storici li videro costretti a posticipare le nozze.
Simpatizzante del Partito Popolare di Don Sturzo fu sempre un convinto antifascista. Durante le elezioni politiche svoltesi il 5 Aprile 1924 nel comune di Marone furono presentate due liste: Partito Popolare e Partito Fascista. Mio papà ci ha più volte raccontato che questa fu una bella giornata. Dalle varie frazioni sin dalle prime ore del mattino molte persone iniziarono ad accodarsi in processione dietro al vessillo azzurro con la croce bianca ed il motto LIBERTAS. Quando la bandiera del Partito Popolare, cui era stato affiancato il tricolore, giunse in paese i rivoli formarono un vero e proprio fiume umano che, compatto, entrò in Municipio. I fascisti, presenti al seggio per intimorire i votanti, si fecero da parte. Lo stesso giorno, Battista Peri, consapevole del proprio ruolo di segretario della locale sezione del P.P. si recò a votare da solo: i fascisti, inviperiti dalla precedente manifestazione, lo assalirono e lo bastonarono selvaggiamente e solo il pronto intervento degli operai della Dolomite accorsi con mazze e picconi, riuscì a salvarlo da una fine peggiore. Anche mio papà era stato “segnalato” ai fascisti come simpatizzante del Partito Popolare; grazie ad uno stratagemma riuscì a confondersi con un gruppo di fascisti e la sorte del pestaggio toccò ad un fascista. Le elezioni furono alla fine vinte dal Partito Popolare. Al termine della giornata i Popolari si riunirono in località Dosso di Castello per festeggiare quella che si annunciava una vittoria: mangiarono, cantarono e bevvero attorno alla loro bandiera.
Mio papà, suo malgrado, al fine di poter esercitare l’attività artigianale, dovette pagare ogni anno (dal 1922 al 1945) la tessera fascista.

La falegnameria

Tutte le mattine, dal lunedì al sabato, prima dell’arrivo degli operai (che iniziavano alle 7,00) noi figli maschi dovevamo alzarci verso le 6,30 per preparare la “colla” (a quei tempi non esisteva la colla “a freddo”): si accendeva il camino, si usavano le tavolette compatte acquistate in drogheria, si sbriciolavano con il martello ed i frammenti venivano messi in una ciotola sistemata a sua volta nell’acqua di un pentolino più grande contenente acqua calda (scaldata dal fuoco). Questa operazione richiedeva un buon quarto d’ora e doveva essere fatta prima dell’arrivo degli operai che avrebbero così potuto iniziare subito a lavorare senza perdite di tempo. Ricordo una mattina in cui mio papà dopo che per ben due volte ci aveva “invitato” ad alzarci (senza ricevere alcuna risposta) al terzo tentativo salì come una furia nella direzione della camera in cui dormivamo noi figli maschi e, dopo aver scardinato la porta di entrata, la scaraventò verso il letto matrimoniale in cui dormivamo io e mio fratello Elia. Solo la nostra pronta reazione nel sollevare le gambe ci consentì di bloccare la porta e ripararci dalla sua caduta sui nostri corpi. In un batter d’occhio ci alzammo e scendemmo a svolgere il nostro compito quotidiano.

La maggior parte dei clienti della falegnameria erano privati residenti in paese, a Zone e a Monte Isola e per lo più dipendenti delle industrie di Marone (Industrie Tessili, Feltri di Marone e Dolomite). In falegnameria si producevano mobili e serramenti e si effettuavano riparazioni. La consegna dei manufatti veniva fatta a piedi o con l’ausilio di carretti. I pagamenti venivano fatti alla consegna e per lo più in contanti in un’unica soluzione o con una rateizzazione annotata su apposito registro che non aveva valore fiscale. Le fatture venivano emesse solo per commesse fatte dalle industrie del paese con tanto di bollo e IVA al 2%! La nostra falegnameria era la più grande del paese e praticamente senza concorrenza. Col passare degli anni il lavoro aumentò   notevolmente: arrivarono clienti dai paesi dei dintorni e dalla bergamasca. Mio papà decise quindi di costruire un capannone più grande per avere più spazio per lo stoccaggio dei manufatti pronti.

Nel 1948 acquistò dal signor Vismara un lotto di terreno piuttosto ampio in via Borgonuovo a Marone e, dopo l’atto di acquisto, commissionò la costruzione del capannone all’Impresa Edile Gorini (in seguito mia sorella Giuseppina, detta Iose, sposò il figlio dell’imprenditore edile, Tarcisio).
Nel 1949 la falegnameria si trasferì nella nuova sede: io e i miei fratelli iniziammo a lavorare a pieno regime con l’aiuto di alcuni operai il cui numero variava a seconda delle commesse. Furono effettuati nuovi investimenti nei macchinari: una sega a nastro, una circolare, una a spessore ed una piallatrice.
L’impresa Gorini iniziò in seguito a costruire vari appartamenti sia sopra sia a lato della falegnameria inizialmente destinati ai genitori e ai tre figli maschi.

Purtroppo nel 1950 mio papà si ammalò e per ben quattro anni rimase allettato e assistito dalla moglie fino alla sua morte avvenuta il 15 Febbraio 1954 (all’età di 67 anni).
Dopo la sua morte la ditta viene intestata ai Fratelli Cristini. Le “redini” del comando vennero prese dal figlio primogenito Giovanni che si occupò della parte amministrativa dell’azienda (contatti e contratti con clienti, pagamenti ai fornitori, pagamenti agli operai ed organizzazione del lavoro).
Io e mio fratello Elia ci occupavamo della parte produttiva.

Mia mamma Isabella

Mia mamma nacque a Paspardo (frazione di Capo di Ponte) nel Febbraio del 1894 da Giovanni ed Afra Serini. Ho avuto l’occasione di visitare la casa natale durante una gita in giornata. Si trattava di una cascina situata poco lontano dal centro abitato.
Mia mamma si trasferì a Marone nel 1908 (all’età di 14 anni) per lavorare presso le Industrie Tessili (“I Guerì”) dove già lavorava la zia Teresa (sorella del papà) trasferitasi qualche anno prima. Anche la zia Carolina aveva lasciato Capo di Ponte e si era trasferita a Lograto, a sud di Brescia, per lavorare come insegnante nell’orfanotrofio del paese. Entrambe le zie non si sono mai maritate.
La mamma lavorò presso le Industrie Tessili fino al 1919 (25 anni), anno in cui si sposò.

Il resto della famiglia (genitori, fratelli e sorelle) si trasferì a Marone nel 1910; inizialmente in affitto nel centro del paese ed in seguito, verso gli anni trenta, commissionarono la costruzione di una casa indipendente a 3 piani per poter abitare tutti insieme.
Con l’andar del tempo i figli si sposarono: mia mamma con Cristini Costanzo, la zia Rina con Pezzotti Martino (morto a 47 anni). Il figlio Alfredo morì d’infarto all’età di 56 anni a Sale Marasino (paese confinante con Marone) mentre il nipote Piermartino andò missionario in Brasile. Dopo qualche anno lasciò “la veste” e sposò una brasiliana.
La zia Teresa (morta a 90 anni) si sposò con Zanotti Angelo (detto Nai) ed ebbero tre figli: Antonio e Mario (entrambi ancora viventi) e Giuseppe (purtroppo già morto).
La zia Giuseppa (morta a 99 anni) si sposò con Dossi Giuseppe ed ebbe sette figli: Aurelia (morta), Albino (morto), Maria (morta), Franco (morto), Bernardina (viva), suor Carolina (viva), Giovanni (morto) ed Alfredo (vivo).
Lo zio Guido si sposò con Predali Dionisia Nisa ed ebbe quattro figli tuttora viventi: Afrina, Gianfredo, Renzo e Pietro.
La zia Dionisia era la promessa sposa dello zio Alfredo morto, ahimè, pochi mesi prima del matrimonio (morì il 1° Luglio 1932 e si sarebbe dovuto sposare nel Settembre dello stesso anno!).

Germania

L’8 Settembre 1943 l’Italia, alleata con la Germania e con il Giappone, decise di uscire dal Patto d’Intesa. Interruppe i rapporti politici con i due paesi e firmò l’armistizio con Stati Uniti d’America, Francia ed Inghilterra.
Come risposta la Germania inviò nuove truppe sul territorio italiano (a quel punto non più paese “amico”) ed occupò la parte Centro-settentrionale della penisola (a partire da Cassino). Il sud d’Italia fu occupata da inglesi e americani.
Quel giorno stavo prestando il servizio militare presso la Marina Militare di Venezia. Ero partito da Marone nel mese di Agosto: la durata prevista per il servizio di leva in marina era di 28 mesi (mentre nell’esercito e nell’aviazione era di 12 mesi). Gli altri commilitoni della provincia di Brescia partiti con me con destinazione Venezia provenivano da Sale Marasino (1), Pisogne (1), Breno (1), Cividate Camuno (1).

Quando arrivammo alla Capitaneria di Porto di Venezia presentammo le cartoline della chiamata alle armi e fummo assegnati a due diverse destinazioni. Due a Pola (a quel tempo appartenente al territorio italiano) e tre a Venezia (tra cui il sottoscritto).
L’8 Settembre ed i giorni successivi furono un susseguirsi di informazioni confuse e contraddittorie che generarono caos e paura; alcuni militari di leva riuscirono, dopo aver trovato ed indossato abiti civili, a fuggire mescolandosi con la popolazione e a rientrare a casa. La maggior parte fu tratta prigioniera dai soldati tedeschi arrivati in forza con tanto di camionette e carri armati.

Ci scortarono fino alla stazione ferroviaria e poi fummo caricati su vagoni “merci” stipati come sardine (60 in ogni vagone): destinazione sconosciuta. Al Brennero aprirono le porte dei vagoni per farci prendere un po’ d’aria e poco dopo il treno proseguì la sua corsa fino al “campo di concentramento” in Germania denominato “IX C”[1]. Un terreno in terra battuta delimitato da filo spinato con corrente elettrica innestata. Era il 19 Settembre 1943.
La permanenza in questo luogo fu di una decina di giorni: un solo pasto al giorno costituito da due patate. Si dormiva su brande a “castello” ubicate all’interno di fabbricati fatiscenti.
A causa di un errore del traduttore fui assegnato ad un campo-lavoro per “sarti” (anziché falegnami) a Gera. La “sartoria”, dove lavoravano principalmente I.M.I (Italiani Militari Internati), si occupava principalmente della riparazione delle divise dei prigionieri.

Data la mia scarsa dimestichezza con ago e filo il compito a me assegnato fu quello di “imbastire” le pezze ritagliate da altri prigionieri più esperti. Il tutto veniva successivamente cucito con apposite macchine, confezionato in pacchi da 10 e consegnato in magazzino che provvedeva all’invio degli stessi ai vari campi-lavoro. Le pezze erano ricavate dalle divise troppo consunte e per le quali le riparazioni non risultavano opportune e convenienti.
La sveglia mattutina era alle 5,30! La giornata lavorativa (sabato e domenica inclusi) iniziava alle 7:00 e terminava alle 19,00 circa ed era intervallata da una pausa “pranzo” di un’ora e mezza.
Il “pranzo” e la “cena”, sempre molto scarsi, consistevano in una brodaglia non ben definita o, in alternativa, in una o due patate (in base alla dimensione) bollite; il tutto preparato in un locale attiguo da “cuochi” militari tedeschi.
Durante la mia permanenza a Gera ricevetti dalla mia famiglia una decina di pacchi contenenti generi alimentari: pane biscottato e scatolette di carne. Me ne avevano spedito un altro tramite la Croce Rossa ma non l’ho mai ricevuto.

Si dormiva su letti a castello (una decina per ogni baracca) consistenti in pagliericci appoggiati su assi di legno; in inverno ci si riscaldava usando solo una coperta da casermaggio data in dotazione all’esercito tedesco.
Dopo 5 o 6 mesi fummo trasferiti a Naumburg, in una fabbrica che produceva cerchioni per carri armati.
Dopo un anno circa fummo nuovamente trasferiti in un altro campo di lavoro ad Erfurt dove rimanemmo fino al giorno della liberazione avvenuta l’8 Aprile 1945 ad opera dell’esercito americano.

Durante questa giornata regnò la confusione: fu un susseguirsi di “fuggi fuggi” sia da parte dei civili sia da parte dei militari tedeschi. Noi prigionieri di varie nazionalità (italiani, polacchi, russi, inglesi e rumeni) fummo caricati sui camion dell’esercito americano e girovagammo esultanti per le strade della città ormai deserta.
Dovetti attendere altri tre mesi prima di poter rientrare a casa ed aspettare il tempo necessario per la ricostruzione delle linee ferroviarie distrutte durante il conflitto.  Nel frattempo cambiò il menù: fu introdotta la carne in scatola!
Il 6 Giugno 1945 i soldati americani ci comunicarono che l’indomani saremmo rientrati in patria. Tutti noi italiani partimmo dalla stazione ferroviaria di Erfurt. La prima tappa fu Ulm. Qui dovemmo attendere altri due giorni prima di poter prendere un altro treno... Salimmo convinti di raggiungere il Brennero, attraversare la Svizzera e raggiungere il Nord Italia. Sfortunatamente la Svizzera non diede il permesso affinché noi transitassimo poiché temeva che durante l’attraversamento ci fermassimo come “clandestini”. Nei pressi del Lago di Costanza dovemmo rientrare ad Ulm e poi proseguire per Augusta, Monaco di Baviera, Innsbruck per poi raggiungere finalmente il Brennero; qui prendemmo la “coincidenza” per Bolzano.

A Bolzano furono allestiti dei “campi di raduno” dove i camion, messi a disposizione dalla Pontificia, avevano il compito di condurre gli ex-prigionieri nelle principali città del Nord Italia. Io ed altri 5 o 6 commilitoni fummo portati all’ospedale militare di Brescia dove gentilmente ci offrirono un piatto di minestra calda ed un panino; dopo aver riposato un po’ io ed altri tre ci ricongiungemmo ad altri commilitoni appartenenti ad altri scaglioni e ci recammo alla stazione ferroviaria di Brescia per prendere la corriera diretta verso il Lago d’Iseo e la Valle Camonica.  Era il 19 Giugno 1945. Sfortunatamente quel giorno nessun mezzo partiva per queste destinazioni per cui decidemmo di fare l’autostop. Sulla strada provinciale un’ape Piaggio ci diede un passaggio fino ad Iseo. Al mercato trovai un passaggio fino a Marone a bordo di un carretto trainato da un cavallo grazie alla gentilezza di un abitante di Sale Marasino! Durante il viaggio, parlando del più e del meno, emerse che mio papà aveva costruito il mobilio di casa sua! E’ proprio piccolo il mondo!

I miei familiari erano stati preallertati, qualche giorno prima da alcuni ex-prigionieri incontrati a Brescia e diretti in Valle Camonica del mio arrivo imminente!
Appena arrivato in paese fui accolto da un gruppo di compaesani (tra i quali il mio padrino della cresima, un certo Gaspare Oliva) che mi fece una gran festa e mi chiese particolari sui due anni trascorsi in Germania.
Il primo famigliare incontrato fu mia sorella Afra, intenta a far la spesa presso il negozio di generi alimentari del paese. Subito dopo mi avviai verso casa dove potei abbracciare mia mamma, mio papà e mio fratello Elia. Gli altri fratelli li salutai al loro rientro da scuola. Nel pomeriggio feci un giro in paese a salutare parenti ed amici. La sera stessa mio papà mi comunicò che l’indomani sarei dovuto andare in “bottega” ad aiutarlo poiché c’era parecchio lavoro. Sinceramente mi ero pregustato una settimana di riposo... Invece il lavoro mi aspettava!

La domenica successiva andai in battello a Lovere a salutare lo zio prete; purtroppo non potei salutare la mia nonna Martina in quanto era volata in cielo nel mese di Gennaio.
La mia vita proseguì alternando lavoro ad incontri sporadici serali con amici trascorsi disquisendo del più e del meno. La settimana lavorativa era intensa: dal lunedì al venerdì lavoravo 11 ore al giorno (dalle 6,00 alle 12,00 e dalle 14,00 alle 19,00) mentre al sabato ne lavoravo “solo” 10! Terminavo alle 18,00 per poter provvedere ad una igiene personale più minuziosa. La domenica mattina era dedicata alla Santa Messa mentre il pomeriggio alla dottrina cristiana.

Isabella

L’incontro con Isabella Uccelli (nata Marone il 5 Luglio 1931), la donna che sarebbe poi diventata mia moglie il 18 Maggio 1957, avvenne in modo causale. La vedevo rincasare tutte le sere dal lavoro in compagnia di colleghe residenti nella sua stessa contrada (Pregasso) attigua a quella in cui risiedevo (Ariolo). Il fidanzamento durò 5 anni (dal 1952 al 1957).
Ci siamo sposati a Marone presso la chiesa parrocchiale di San Martino.

Isabella si era trasferita da poco con tutta la famiglia nella frazione di Pregasso. La sua famiglia, soprannominata i Folec’, era originaria della località Madonna della Rota posta a 600m di altezza rispetto al lago. Questa località era caratterizzata dalla presenza di prati e boschi e quasi tutti i componenti della famiglia (papà Pietro Uccelli, mamma Agostina Zanotti e i sette figli Girolamo, Isabella, Francesco, Carlo, Andrea, Costanzo e Giacomina) si dedicarono per alcuni anni ad attività legate all’agricoltura e alla pastorizia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale ci furono, sulle montagne che circondavano questa località, diversi rastrellamenti. Molte cascine vennero perquisite ed in parte bruciate dai soldati tedeschi a caccia di partigiani i quali erano riusciti ad organizzarsi ed instaurare ottimi rapporti con la popolazione locale e potevano contare su un’eccellente rete di staffette. Il rifornimento delle armi lo risolvettero con un’incursione notturna nelle fabbriche Redaelli e Beretta in Val Trompia dove riuscirono, grazie all’aiuto di alcuni operai, ad impadronirsi di diversi armi.

Mio suocero mi raccontò che un bel dì due persone, partite dalla frazione di Pregasso e dirette alla casa di vacanza situata in località Croce di Marone, lo avvisarono che da lì a poco sarebbero arrivati i tedeschi imbeccati dai fascisti di Marone. Sapendo che i vicini ospitavano quattro partigiani provenienti da Brescia, mio suocero li allertò e li esortò a fuggire tra i boschi delle montagne riuscendo a salvar loro la vita. Tra questi c’era un certo Aurelio che aveva fatto un voto alla Madonna: qualora si fosse salvato si sarebbe fatto prete. E così fu! Mantenne la promessa e dopo qualche anno tornò a ringraziare mio suocero e coloro che l’avevano ospitato.
Mio suocero la mattina stessa portò tutti i figli in una grotta dicendo loro di rimanere nascosti; sarebbe tornato quando la situazione si fosse tranquillizzata. Temeva che i bambini, interrogati dai tedeschi, potessero parlare e fornire informazioni compromettenti. I tedeschi arrivarono, perquisirono la casa, sequestrano zucchero e burro e fecero un vero e proprio interrogatorio circa la provenienza di una coperta “militare” prodotta dalla tessitura Cristini che mio suocero aveva ottenuto in cambio di un po’ di lumache per le quali il titolare ne andava ghiotto. Temevano che la stessa servisse per nascondere i partigiani. I tedeschi, con l’aiuto di un traduttore, fecero moltissime domande ma alla fine decisero di lasciarla.
I bambini vennero portati a casa solo a notte fonda quando i tedeschi se ne andarono. Quella notte molte cascine furono bruciate...
Le montagne intorno erano tutte punteggiate da falò.

[1] Era un campo di prigionia tedesco per soldati alleati. Sebbene il quartier generale fosse situato vicino a Bud Sulza, tra Erfurt e Lipsia, in Turingia, i suoi distaccamenti di lavoro (Arbeitskommandos) erano distribuiti su una vasta area, in particolare quelli che internavano prigionieri che lavoravano nelle miniere di potassio, a sud di Mühlhausen. Il campo fu aperto nel febbraio 1940 per rinchiudere i soldati polacchi prigionieri. Nel giugno arrivarono molti militari francesi e belgi catturati durante la battaglia di Francia. Verso la fine dell’anno giunsero soldati presi prigionieri a Dunkerque. Nell’aprile del 1941 ne arrivarono altri dalla Jugoslavia; mentre nel 1943 vi furono rinchiusi prigionieri britannici e del Commonwealth provenienti dall’Italia e Nord Africa. Nel settembre e nell’ottobre del 1944 vennero internate truppe aviotrasportate inglesi e canadesi e, e alla fine dell’anno militari americani sopraffatti nelle Ardenne. Il 29 marzo 1945 il campo fu evacuato e i prigionieri di guerra furono costretti a marciare verso est prima dell’offensiva americana. Quelli rimasti nello Stalag furono liberati dalle truppe della 3° Armata degli Stati Uniti.

2005

Il diario di Carlo Cristini dei Costantì

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