Le famiglie di Collepiano - secoli XVI-XIX

Roberto Predali 

La mappa catastale del 1808[1] riporta 5 abitazioni in località Castello: 4 mappali costituiscono un unico cortivo. L’insediamento di Collepiano (in questo ci aiutano le graffature contrassegnate con il simbolo ~) è caratterizzato da questa tipologia edilizia[2]. Vi sono, in aggiunta a quelli di Castello, altri 32 mappali. L’abitato - oltre che lungo il tracciato dato dalle sorgenti d’acqua[3] - si dispiega seguendo il percorso della via che da Marone porta a Zone e di quella che collega Collepiano a Pregasso (Valleriana). L’abitato si è sviluppato notevolmente dopo il 1580 e fino al 1640[4] (+14 case), per poi stabilizzarsi negli anni successivi, fino al ’900: il raffronto tra le mappe catastali non mostra variazioni in località Castello mentre, nel resto dell’agglomerato, si accentuano le particelle più che i fabbricati, segno di divisioni ereditarie (soprattutto dalla fine del 1800 in poi).

La popolazione della provincia bresciana[5] passa da 500.000 anime nel 1573 a 300.000 nel 1580 - dopo la peste detta di San Carlo -; il Catastico del 1609 rileva 388.398 abitanti; la popolazione diminuisce a 164.000 nel 1650 (in conseguenza della peste del 1630) per poi stabilizzarsi attorno alle 340/350.000 unità tra 1650 e i primi decenni del ’700: «l’elevata fertilità riesce a malapena a compensare la mortalità ordinaria, finché non si abbattono sull’universo demico i tre cavalieri dell’Apocalisse, l’epidemia, la guerra e la carestia»[6].

La popolazione di Marone - almeno stando ai censimenti dei parroci in occasione delle visite pastorali - passa da 600 (1562 visita Pandolfi) a 786 nel 1580 (visita Borromeo)[7] e si attesta attorno alle 1000 unità dopo il 1670 fino ai primi anni del 1700, per poi diminuire a 800/850 abitanti alla fine del secolo: sebbene in modo parzialmente contraddittorio tra 1500 e 1641, l’andamento demografico locale, senza dubbio dal 1650 al 1750, è coerente con l’andamento demografico della provincia bresciana.

A Collepiano dal 1573 al 1641, di fronte anche all’aumento del numero di abitanti (+ 21% in tutto il Comune), si ha l’aumento consistente del numero delle famiglie nucleari (+60% circa), confermato dall’incremento delle partite d’estimo. In mancanza di altri dati di riferimento, è lecito ipotizzare che i nuclei famigliari di uno stesso clan, in questo caso soprattutto i Bontempi e i Gigola - le due famiglie che monopolizzano Collepiano - abbiano strettamente marcato il territorio risiedendo quasi esclusivamente nella stessa frazione e che abbiano ulteriormente segnato lo stesso spazio con cortivi che originariamente erano di un paterfamilias e che in seguito sono diventati dei suoi eredi (con famiglie nucleari di parenti agnatizi coabitanti).

Gli abitanti della frazione vivono prevalentemente di agricoltura. Le attività artigianali sono concentrate lungo l’asse della Sèstola e nessun abitante di Collepiano, negli estimi, è titolare di attività extra-agricole, se si eccettua la proprietà di un torchio per le olive da parte di una famiglia Bontempi.

L’elemento caratterizzante della proprietà agraria - dovuto in gran parte alla natura dei terreni (poche le terre pianeggianti, prevale la coltura promiscua con ciglioni, le «terre arradore, vidate, olivate») - è il piccolo possedimento, sempre più spesso, dal XVII secolo in poi, gravato da ipoteca; quando le terre sono in affitto prevalente è il contratto di enfiteusi[8].

In appendice è riportato, integralmente, il regolamento del Comune di Marone[9] elaborato dal Governo Bresciano in seguito alle «Terminazioni delli Ecc.mi Sig.ri Francesco Grimani, Pietro Vettor Pisani Capitanij di Brescia […]». Per i luoghi sacri e le funzioni religiose vi  è uno specifico capitolo, relativo soprattutto alla parrocchiale e alla chiesa di San Pietro. Nel libro del Massaro del Comune non vi sono voci di pagamento per l’oratorio di San Bernardo, mentre numerose sono le voci che si riferiscono alla nuova parrocchiale eretta, in gran parte, a spese del Comune Rurale (così come la chiesa di San Pietro era stata edificata a spese della Vicinia[10]). Dalla fine del XVII secolo la chiesa ha amministrazione autonoma (come l’avrà la successiva chiesa di Vesto), come testimonierebbe il “Libro del massaro”[11]. Fino al XIX[12] secolo la chiesa di Collepiano non è dotata di cappellanie né di legati (nell’800 si istituisce la cappellania Bontempi).

La chiesa di San Bernardo nasce come piccola cappella (poco più di un’edicola) e, nei secoli fino al XVIII, si modifica senza interventi radicali ma con lente trasformazioni che, gradatamente, ne modificano l’aspetto fino all’attuale. Le sue vicende sono strettamente connesse a quelle della comunità di Collepiano e rispecchiano, oltre ai sentimenti religiosi, la storia, fatta di atti e intenti, di quanti hanno abitato Collepiano: è «icona» della loro vita.

Le note che seguono ricostruiscono (per quanto è possibile oggi e senza la pretesa di essere uno studio di demografia storica) la vita dei due gruppi parentali di Collepiano numericamente più rilevanti, i Bontempi e i Gigola. Le loro traversie narrano la vita di una comunità sostanzialmente chiusa e povera che, comunque, trova un momento di identità ed elevata auto-rappresentazione[13] nella chiesa di San Bernardo (e nel culto di sant’Isidoro agricolo): la sua stessa lenta continuità rintracciabile nella presenza di opere significative del ’600 e del ’700 pittorico bresciano ne è la testimonianza e, con il digradare dall’Amigoni al Voltolini, attesta la crescente povertà economica della committenza locale.

Le famiglie di Collepiano (secoli XVI-XVIII)

Nel 1573[14] le famiglie di Collepiano (che hanno beni e/o vi abitano) sono:

  1. Baldessar, Francesco de Zoan de;
  2. Baratto, David del;
  3. Bertelli, Corsina di;
  4. Bo, Michel del;
  5. Bon, Barth:o del;
  6. Bontempi, Agostino di;
  7. Bontempi, Barth:o, et Pietro di;
  8. Bontempo, Giaccomo;
  9. Bontempo, Herede de Zovan;
  10. Bontempo, Piero q. Piero;
  11. Bontempo, Toni de Mafe;
  12. Castello, Baldesar et Mate de;
  13. Cigole, Bartholomeo di;
  14. Gigole, Zo: Francesco di detto Ceschi.
  15. Gigoli Comino di, ditto Binello;
  16. Gitti, Joseffo detto Brun per lui, et Maria sua moglie;
  17. Gitti, Peder del Fanci di;
  18. Mori, Stefano di;
  19. Morini, Martino di;
  20. Pasino, Barth:o;
  21. Rizai, Domenico q; Hir:mo di.

Nel 1641 le famiglie di Collepiano sono:

  1. Bonfadino, q. Christofforo, Battista, et fratello;
  2. Bontempi, Lorenzo, q. Comino, Giovan Battista, et Giovan Pietro frattelli;
  3. Bontempi, q. Antonio, Tomaso, et fratello;
  4. Bontempi, q. Giovan, Battista;
  5. Bontempi, q. Lorenzo, Giovan;
  6. Bontempo, di Bartholomeo, Giovan;
  7. Bontempo, figliolo di Bartholomeo, Francesco;
  8. Bontempo, q. Andrea, Giaccomo, habitante in riviera di Salò;
  9. Bontempo, q. Andrea, Giovan:
  10. Bontempo, q. Antonio, Agostino et fratello;
  11. Bontempo, q. Bartholomeo, Giaccomo;
  12. Bontempo, q. Giaccomo, Bartholomeo;
  13. Bontempo, q. Pietro, Bartholomeo;
  14. Bontempo, q. Pietro, Giovan Antonio;
  15. Bontempo, q. Stefano, Lorenzo.
  16. Bontempo, q. Tomaso, Giaccomo;
  17. Bontempo, v. q. Giovan Pietro, Domenica;
  18. Chrestino, q. Giacc:mo, Martino;
  19. Gigola, q. Bartholomeo, Bevenuto et fratello;
  20. Gigola, q. Gio: Pietro, Antonio;
  21. Gigola, q. Giovan, Christofforo;
  22. Gigola, q. Giovan, Geronimo;
  23. Gigola, q. Paolo, Mattheo;
  24. Gitti q. Giovan Battista, Francesco;
  25. Gitti, q. Gioseffo, Stefano;
  26. Guerini, q. Camillo, Giovan Battista;
  27. heredi q. Giovan Maria Marino, Guerino q. Giovan Battista e Anto- nio, Pietro, figliolo di Geronimo Gitti;
  28. Marchesi, q. Pietro molinaro sopra le Chiusure, Marco Andrea, et fr:elli.

Un documento del 1764, conservato nell’archivio parrocchiale, elenca, per località, gli Antichi Originari del Comune di Marone. Le famiglie originarie di Marone, a quella data, sono 131.

Nel 1764 le famiglie di Collepiano (capifamiglia Antichi Originari) sono:

  1. Bonfadini, q. Cristoforo, Bonfadino;
  2. Bontempi, q. Antonio, Giovanni;
  3. Bontempi, q. Bartolomeo, Alberto;
  4. Bontempi, q. Giacomo, Pietro;
  5. Bontempi, q. Giovanni Battista, Antonio;
  6. Bontempi, q. Giovanni Battista, Giovanni Giacomo;
  7. Bontempi, q. Giovanni, Giovanni;
  8. Bontempi, q. Giuseppe, Agostino:
  9. Bontempi, q. Giuseppe, Pietro;
  10. Bontempi, q. Innocenzo, Giovanni Battista;
  11. Bontempi, q. Lorenzo, Pietro;
  12. Bontempi, q. Maffeo, Giovanni Battista;
  13. Bontempi, q. Pietro Antonio, Giovanni Battista;
  14. Cristini, q. Antonio, Martino Antonio;
  15. Ghitti, q. Cristoforo, Dionisio;
  16. Gigola q. Pietro, Matteo;
  17. Gigola, q. Cristoforo, Giovanni Battista;
  18. Gigola, q. Francesco, Antonio;
  19. Gigola, q. Giovanni, Giovanni Battista;
  20. Gigola, q. Giovanni, Giulio:
  21. Gigola, q. Lorenzo, Giovanni Battista;
  22. Gigola, q. Pietro, Giovanni Battista;
  23. Gigola, q. Pietro, Giuseppe;
  24. Gigola, q. Stefano, Paolo.

Nell’estimo del 1785 le famiglie di Collepiano sono:

  1. Bonfadini, q. Cristoforo, Tadino;
  2. Bontempi, q. Antonio, Giacomo, dei Michècc;
  3. Bontempi, q. Antonio, Giovanni Maria, di Angelica dei Michècc;
  4. Bontempi, q. Bartolomeo q. Alberto, eredi;
  5. Bontempi, q. Bernardo q. Giuseppe, eredi;
  6. Bontempi, q. Francesco q. Giacomo, Giacomo;
  7. Bontempi, q. Francesco, Giovanni:
  8. Bontempi, q. Giovanni Battista q. Pietro Antonio;
  9. Bontempi, q. Giovanni Pietro, Giovanni Giacomo, dei Bergamasch;
  10. Bontempi, q. Giovanni, Antonio, dei Michècc;
  11. Bontempi, q. Giovanni, fratelli e nipote, di Tomasì;
  12. Bontempi, q. Giuseppe, Agostino;
  13. Bontempi, q. Maffeo, fratelli, dei Bergamasch;
  14. Bontempi, q. Pietro Antonio, Giacomo;
  15. Bontempi, q. Pietro q. Giuseppe, eredi;
  16. Bontempi, q. Pietro, Antonio;
  17. Bontempi, q. Pietro, Giacomo, dei san Bernardo;
  18. Cristini, q. Antonio, Giovanni Pietro, dei Signorelli;
  19. Gigola, q. Cristoforo, Giovanni Battista, di Castello;
  20. Gigola, q. Francesco, Antonio, di Castello;
  21. Gigola, q. Giovanni Battista, fratelli, di Castello;
  22. Gigola, q. Giovanni Battista, Giovanni, detto Tezola;
  23. Gigola, q. Giovanni Battista, Lorenzo, di Castello;
  24. Gigola, q. Giovanni, Giulio;
  25. Gigola, q. Stefano, Paolo, di Castello.

Giorgio Buscio, nel suo Libro per le Famiglie, suddivide le famiglie di Collepiano anche per soprannome:

vi sono i Bonfadini q. Lorenzo (capostipite); i Cittadini q. Antonio; la famiglia Ghiterli detta il Pastore originaria di Tober in Germania; i Gusmarolo (secolo XIX); i Pellegrinelli originari di Angolo (secolo XIX).

I Bontempi sono:

Bergamasch;
Bernardo;
Caval;
di Alberto;
Gioavan Giacomo;
Michècc;
Rûsa;
san Bernardo;
Tempino;
Tomasì;
Torcol.

I Cristini sono:

Signorello.

I Gigola sono:

Bogolò;
Castèl;
Tezola;
Ulgio;

Giovanni Maria di Cristoforo;

  1. Cristoforo (capostipite);
  2. Giovanni Pietro (capostipite);
  3. Giovanni Pietro, di Matteo
  4. Paolo (capostipite).
La famiglia Bontempi

La famiglia Bontempi - il gruppo parentale più numeroso di Collepiano, nel 1573 tutto concentrato nella frazione[15] - è composta di 6 famiglie i cui maschi titolari di partita sono Agostino[16], Antonio di Maffeo[17], i fratelli Bartolomeo e Pietro[18], Giacomo q. Pietro, il fratello di Giacomo, Pietro q. Piero[19], gli eredi di Giovanni[20]. In due soli casi è citato il paterfamilias - i quondam Pietro e gli eredi di Giovanni -; in due casi pare vi sia il fedecommesso (partite dei fratelli Bartolomeo e Pietro e degli eredi di Giovanni).

Nel 1641 i Bontempi capifamiglia censiti nell’estimo sono 17[21] (tra i due estimi trascorrono circa 70 anni per cui vi sono, in mezzo, da una a due generazioni) raggruppabili in 8/9 ceppi famigliari: le due famiglie q. Antonio (Agostino e fratello e Tommaso e fratello[22]); i q. Giovanni (Battista[23] e Comino[24]: tra il primo e il secondo vi sono 60 anni di differenza per cui sono figli di omonimi); i fratelli q. Comino q. Giovanni[25], (è questa la famiglia di Collepiano con maggiori proprietà, forse imparentata dal 1613 con i Ghitti[26] che verranno chiamati nel 1700 di Bagnadore); Giovanni q. Lorenzo[27] che vive con il fratello Francesco; Lorenzo Bontempi q. Stefano[28]; Giacomo q. Tommaso Bontempi[29].

I dieci ceppi famigliari Bontempi che ritroviamo nel XVIII secolo sono eredi di quelli del 1573 e del 1637-1641. Le statistiche dell’epoca danno un incremento della popolazione tra la metà del ’500 e la metà del ’600 di circa 400 unità con un aumento quasi parallelo delle partite del 1641, cui corrisponde l’aumento delle famiglie nucleari, che vanno progressivamente a sostituire quelle complesse[30] che, presumibilmente, erano maggiormente presenti nei secoli antecedenti il XVII (e, infatti, la media dei componenti passa da 6/7 a 5/6 e tra i Bontempi vi sono, nel ’641, solo 3 famiglie su 17 in cui coabitano più generazioni).

Poiché la parentela definisce i membri della famiglia ma regola anche la trasmissione generazionale di elementi diversi - quali il nome (l’appartenenza a un nucleo familiare e la propria identità) e la proprietà dei beni (immobili o mobili) - ed essa agisce all’interno di rapporti parentali articolati (gli abitanti di Collepiano sono, in pratica, tutti legati tra loro da rapporti di varia parentela) e di una situazione economica di estrema povertà e in trasformazione, l’evoluzione dalla famiglia complessa a quella nucleare non è lineare e univoca. Se, di fatto, aumenta il numero delle famiglie nucleari, nel contempo i nuclei tendono a riaggregarsi - materialmente - con i matrimoni incrociati. La propria identificazione è data oltre che dal cognome (che rimanda a una lontana origine comune) anche, dall’estimo del 1641, con il quondam (riferito all’avo più prossimo, e che indica che il passaggio della proprietà avviene solo allo morte del quondam, appunto) e, nel XVIII secolo, dal soprannome (che si riferisce a un passato prossimo e a un avo comune riconosciuto). Inoltre permane (e in alcuni casi aumenta) la contiguità territoriale dei parenti.

Tanto più i beni delle famiglie si frantumano, soprattutto per l’indebitamento crescente e le divisioni ereditarie, tanto più - culturalmente - queste tendono a ricomporsi attraverso il richiamo alla propria storia e nel territorio.

Se è la casa l’elemento fisico che identifica e connota il ruolo della famiglia (e in cui essa si identifica), è la chiesa quello in cui si riconosce la comunità: se, come a Collepiano (ma il caso limite è Vesto, in cui abitano solo Guerini), famiglia e comunità coincidono va da sé che l’edificio religioso ne diventa il simbolo e l’immagine, l’auto-rappresentazione.

Non sempre è possibile individuare elementi di continuità tra gli estimi (1573, 1641 e 1785), perché spesso compaiono omonimie e i toponimi che identificano le proprietà variano notevolmente così come le dimensioni dei terreni. I primi dati relativamente certi sono quelli riguardanti la composizione delle famiglie nel 1700, grazie al lavoro certosino dell’allora parroco Giorgio Buscio. Il confronto tra i tre documenti settecenteschi (l’elenco degli Antichi Originari, l’estimo del 1785 e il Libro per le Famiglie) mostra che vi sono - soprattutto nel lavoro del Buscio - alcune lacune che al momento non sono possibili colmare: nell’elenco degli Antichi originari compaiono Antonio e Giovanni Giacomo q. Giovanni Battista, Giovanni Battista q. Innocenzo e Pietro q. Lorenzo che non sono presenti nel Libro per le Famiglie; allo stesso modo Giacomo q. Giacomo q. Francesco e i Bontempi q. Giovanni Battista q. Pietro Antonio dell’estimo del 1785 sono, allo stesso modo, assenti nell’elaborato del Buscio[31], che, pertanto, non può ritenersi esaustivo (inoltre, spesso i dati al suo interno non corrispondono, per presumibili errori nel linkage).

Sulla base esclusiva del Libro per le Famiglie di Giorgio Buscio - l’opera del parroco è stata continuata fin verso il 1870 dal suo successore Stefano Soardi (dal 1828 al 1865) - sono stati analizzati i dati che si riferiscono alla famiglia Bontempi di Collepiano dai primi anni del XVIII secolo (del 1717 è prima data di nascita)  al 1871 (ultima data di morte).

Sono stati individuati 342 gruppi di dati che si riferiscono ad altrettante persone. Di 233 (68%) di queste si conosce la data di nascita; di 186 (54%) è nota la data di morte (bisogna tenere conto che erano presumibilmente viventi alla data delle ultime rilevazioni circa 60/70 persone di cui non è, quindi, indicata la data di morte); di 154 si conoscono sia la data di nascita che di morte.

Il campione (154 persone nate tra 1717 e 1867) non è certamente esaustivo ma è sicuramente indicativo. I dati che se ne ricavano non sono estendibili all’intera comunità maronese che presenta, al proprio interno, notevoli differenze sociali. La mortalità infantile in due gruppi distinti che ho analizzato (Ghitti e Bontempi) è notevolmente diversa; le politiche famigliari, variando in funzione della condizione economica, non sono univoche all’interno di uno stesso clan (se nei Bontempi la scelta della mera conservazione e, più spesso, della sussistenza prevale, lo stesso non si può dire nei Ghitti, tra i quali si hanno casi di scelte mirate alla sussistenza, alla conservazione ma anche all’aumento del patrimonio).

L’età media è di 31,4 anni.

Ad abbassare la media interviene, quale fattore decisivo (oltre ad altri elementi endemici), la mortalità infantile (da 0 a 2 anni). Sono 45 i bambini che muoiono, dal 1794 al 1863, tra zero e due anni (30 con meno di un anno - 24 muoiono in età perinatale, entro il primo mese di vita - e 8 a due anni) che costituiscono il 50,6% dei nati tra le due date (che sono in totale 89). Il dato non è generalizzabile all’intera popolazione di Marone; nella famiglia Ghitti - su cui ho eseguito un’analoga analisi su 495 record - presenta un dato diverso. Nello stesso periodo i morti in età infantile sono 48 (33,1%, su un totale di 137 nati tra 1794 e 1863). I Ghitti, nel loro complesso, erano un clan relativamente benestante, mentre i Bontempi erano poveri; le condizioni di vita (anche igieniche) erano, di conseguenza, diverse: gli uni si dedicavano soprattutto all’attività molitoria, gli altri all’agricoltura. Il carico di lavoro che gravava sulle spalle delle donne era minore nel caso dei Ghitti e maggiore in quello dei Bontempi, con il conseguente indebolimento delle partorienti e delle puerpere (e diverso era anche il regime alimentare). Segnava profondamente, anche, l’abitudine dei matrimoni endogamici e incrociati, minori nel caso Ghitti che in quello Bontempi. La famiglia Maturis, forse la più facoltosa di Marone, sebbene le donne partoriscano 5/6 figli, non presenta casi di morte di neonati (con un solo caso di endogamia territoriale con un matrimonio sterile, quello tra Pace e Giovanni Battista Ghitti).

Passati i primi due anni di età, le morti diminuiscono drasticamente: infatti, vi sono solo 8 morti tra i 3 e i 16 anni.

Se si escludono i bambini della fascia 0/2 anni la vita media sale a 45 anni (44,99).

Trenta gli ultrasessantenni con la media di 70 anni.

Don Morandini[32], rilevando i dati dei Registri parrocchiali dei Battezzati, dei Matrimoni e dei Morti, elabora questa tabella:

 

battezzati matrimoni morti popolazione*
1754 - 1777 542 125 667 853 - 808
1788 - 1804 648 118 776 794 - 882
1805 - 1827 806 181 812 ~900
totale 1996 424 2255

 

* aggiunta mia

Sebbene in 73 anni il saldo tra nati e morti sia negativo la popolazione aumenta: a ciò contribuisce l’immigrazione di nuove famiglie, soprattutto dalla Valle Camonica e dalla bergamasca, attirate, si presume, dall’emergente manifattura tessile.

Tra i Bontempi vi è un caso di nato Anonimo (11 settembre 1811, figlio di Giovanni dei Michècc e Maria Bonometti): il bambino è nato morto e non è stato possibile battezzarlo.

Sebbene riferiti al XVII secolo, tre anni campione (1631 - 1633) del Libro dei Battesimi, (rettore-parroco Antonio Giordani) ci forniscono utili indicazioni anche riguardo alle difficoltà connesse alle omonimie e alla scarsa cura con cui tali registri venivano compilati (uno stesso bambino risulta battezzato due volte). Nel 1631 il parroco celebra 22 battesimi; essendo vacante la parrocchia di Vello vengono effettuati anche i battesimi dei nati in quel comune (5); dei 17 battesimi maronesi quattro sono effettuati in stato di necessità, due dall’ostetrica (di cui uno in un parto gemellare) e due dal parroco stesso «in tempo di peste» (tra giugno e agosto, ed è l’unica notazione che ho trovato, in loco, relativa alla peste manzoniana) che si era premunito di essere presente, allarmato dall’epidemia e dalle probabili cattive condizioni di salute della madre. Un quarto dei nati (23,6%) è battezzato «per necessità» immediatamente dopo il parto. Il parto gemellare è difficile e spesso uno o entrambi i bimbi muoiono, come accade ancora nel 1818 quando nascono, il 3 agosto, i gemelli Giovanni e Giuseppe di Maffeo dei Bèrgamasch e di Leonida Giuliana Rossetti, che muoiono entrambi una settimana dopo il parto. Nel 1632 vi sono 28 battesimi, tutti di maronesi e nessuno in «per necessità»; nel 1633, passato l’incubo della peste, il parroco celebra 39 battesimi di cui, però, 3 sono celebrati dall’ostetrica «per necessità» (7,7%).

Tra 1754 e 1827 nascono in media 26/28 bambini all’anno, come per altro sembrerebbe anche nel XVII secolo: almeno sulla base del lavoro del Buscio, le famiglie non sono mai particolarmente numerose. Se spesso è elevato il numero dei parti, in realtà la famiglia è, alla fine e dopo le numerose morti premature, composta di padre, madre e da due a quattro/cinque figli; le famiglie veramente numerose si affermano soprattutto nel XIX secolo. Nei secoli precedenti il XIX ogni famiglia è proprietaria di terreni e stabili e, di conseguenza, la politica famigliare è finalizzata alla tutela del patrimonio (al basso numero di figli corrisponde un minore frazionamento di quest’ultimo). Nel 1800, soprattutto con l’affermarsi dell’industria laniera, il processo di impoverimento delle famiglie si accentua: non essendovi più patrimonio famigliare da preservare, viene meno il contenimento della fertilità, il numero dei figli aumenta e con essi cresce la povertà. Il processo non è certamente lineare né automatico ma basta scorrere gli alberi genealogici dei Bontempi per vedere come esso si sviluppi. I Rosa e Bernardo, per esempio, iniziano con Giuseppe che ha due figli nei primi anni del 1700, questi hanno a loro volta una famiglia composta di due figli, ma Giuseppe, che continua la famiglia nel XIX secolo, ha 9 figli di cui 7 sono viventi nel 1850 e di cui il maggiore ha 55 anni e il minore 45. Analogo sviluppo hanno i Bèrgamasch e i Michècc, le altre due famiglie di più lunga durata.

L’età media del matrimonio nelle donne è di 23 anni (dal 1766 al 1863), che diminuisce a 21 se si escludono i secondi matrimoni: su 66 sposi di cui si conosce l’età (su 133 matrimoni) solo 7 sono tra persone con più di 30 anni; tra questi, in due casi la sposa è sicuramente una vedova (è il caso di Antonio Maria dei Bérgamasch che si sposa tre volte, in secondo matrimonio con Maria vedova Guerini di 32 anni e in terzo con Francesca Cristini vedova Novali); una sola donna dei Bontempi si risposa mentre sono 9 i vedovi che prendono una nuova moglie (oltre ad Antonio Maria che si sposa 3 volte).

Il matrimonio in età avanzata (matrimonio ritardato) dovuto a ragioni economiche - la costituzione di un patrimonio - o all’intenzione di controllare le nascite pare, in sostanza, quasi del tutto sconosciuto a Collepiano. Anzi, in alcuni casi vi sono matrimoni tra persone molto giovani: in nove casi gli sposi hanno 18 anni o meno; il caso limite è quello di Domenica Buffelli di Fraine di 14 anni che si coniuga con Giacomo Michèt nel 1807 (ma avrà il primo figlio solo nel 1812). Domenica muore a 62 anni, nel 1854, dopo aver dato alla luce 9 figli di cui 7 le premuoiono.

Antonio Maria dei Bèrgamasch, figlio di Francesco e Giovanna Ciocchi, si sposa, il 16 settembre del 1818 a 22 anni, con la cugina Maria del Torcol di 20 anni di Antonio Maria e di Maria Bontempi. Nel 1920 nasce la prima figlia, Orsola - nome che ricorre tra i Bèrgamasch perché si richiama a Orsola Cristini [†1749] -, che muore cinque giorni dopo la nascita; il 26 febbraio del 1822 nasce Giuseppe che vive meno di tre mesi e muore nel maggio dello stesso ’22; il 24 ottobre del 1823 nasce Domenica che vive solo quattro giorni e muore il 28 ottobre; due giorni dopo muore anche Maria, evidentemente per complicazioni post partum. Quello tra Antonio Maria e Maria è un matrimonio tra cugini (matrimonio incrociato), fatto non insolito a quell’epoca ma non certo ottimale per la salute dei figli; la situazione è ulteriormente aggravata dalla forte endogamicità territoriale dei matrimoni (v. tabella) per cui deriva che pressoché tutti gli abitanti di Collepiano sono, in qualche modo, consanguinei. Antonio Maria sposa poi, nel marzo del 1824, Maria ved. Guerini; si risposa, dunque, quattro mesi dopo la morte della prima moglie, a 28 anni, con una vedova di 32 che non ha avuto figli nel primo matrimonio. Il primo figlio di Antonio Maria e della vedova, Giuseppe, nasce il 23 dicembre del 1824 e muore diciotto giorni dopo; un altro figlio - il terzo, anch’egli chiamato Giuseppe - muore a un anno e 5 mesi; un altro Giuseppe muore a 24 anni. Tre figli - Giovanna, Maria Virginia e Giovanni Maria - muoiono dopo il 1860. Rimasto nuovamente vedovo nel 1843, Antonio Maria si risposa a 47 anni, il 5 febbraio del 1844, con Francesca Cristini degli Afre vedova di Pietro Antonio Novali di 48 anni.

Prevale il matrimonio endogamico: su 60 matrimoni celebrati a Collepiano tra Bontempi 10 (16,6%) sono tra membri di questa famiglia, 8 con i Gigola (13,3%), 3 con altri abitanti di Collepiano e 19 con residenti nelle altre località maronesi: in totale il 35% dei matrimoni avviene all’interno della frazione; solo 21 giovani si sposano fuori dal territorio del comune; il matrimonio endogamico territoriale (sposi maronesi) rappresenta il 67% del totale.

L’ambito dei rapporti è limitato. Per esempio, i rapporti tra Bontempi e Pellegrinelli - famiglia originaria di Angolo ma residente a Collepiano - sono strettissimi: Giovanni Pellegrinelli sposa Giacomina degli Alberto, Domenica dei di Rosa sposa Giuseppe Pellegrinelli, nipote di Giovanni; suo cugino Giuseppe sposa Maria Pellegrinelli figlia di Giovanni; la sorella di Maria, Caterina, sposa Domenico del Torcol.

Più complessi, ma non per questo meno chiari, i rapporti che legano i Bontempi e i Gigola. Per esempio, Antonio Gigola sposa Maria Bontempi dei Giangiacom; suo figlio Battista si coniuga con Caterina dei Tomasini; Francesco di Battista sposa Maria Maddalena Ghiterli, nipote di Barbara che è coniugata con Bernardo dei Rosa/di Bernardo e poi, rimasta vedova, con Antonio dei Michècc[33].

I Bontempi nel XVIII secolo

 I Bontempi di Alberto

Alberto [?-1769], il capostipite da cui il soprannome - coniugato con Caterina Ghitti dei Pestunhì di Ponzano [?-1766] - ha quattro figli: Maddalena coniugata con Stefano Guerini del Campanaro, Bartolomea moglie di Lorenzo Ghitti del Gotard, Giacomina sposata con Giovanni Pellegrinelli, e Bartolomeo (che sposa Margherita Soardi di Montisola da cui ha due figli, Caterina e Alberto). Nell’estimo del 1785 gli eredi di Bartolomeo q. Alberto possiedono solamente una casa di due piani, limitrofa a quella dei Bontempi del Torcol e dei Michècc[34].

La famiglia è data per estinta da Giorgio Buscio con Alberto [1783-?].

I Bontempi detti di San Bernardo

Pietro q. Lorenzo è sposato con Giacomina Gigola di Castèl, figlia di Matteo e Lucia, da cui ha tre figli, Battista, Francesca maritata con il cugino Giuseppe Bontempi dei Michècc, e Giacomo. Nell’elaborato del Buscio non compare alcun Lorenzo Bontempi ma, essendo il figlio Pietro un Antico Originario (compare nell’elenco del 1764), la sua famiglia doveva risiedere a Marone da varie generazioni. Nella partita nel 1785 il nipote Giacomo q. Pietro «detto a S. Bernardo»[35] possiede solamente una casa «ereditata dal q. Gio: Batt:a Bontempi q. Innocenzo», altro Antico Originario di Collepiano che non compare nel Libro per le famiglie.

La famiglia si estingue con Giacomo e Battista che rimangono celibi. Il Buscio è perentorio nello stabilire la mancanza di ulteriore discendenza, poiché pone, al termine della pagina (in questo e in altri casi), una vistosa croce.

 I Bontempi detti di Caval

 Caàl in dialetto è cavallo: è un toponimo nei pressi  di Collepiano (ràta de Càal) e il nome di due cascine nella mappa del 1808. «Il Cavallo in montagna è di solito attributo di passo»[36]: le cascine e il tratto si strada che hanno questa denominazione sono posti lungo il percorso della via (acciottolata anticamente) che portava in Croce di Marone.

Nel 1785 Antonio q. Pietro [† 1823] possiede un cortivo, una casa («acquistata» da Orsola Guerini) detta La Piombina (Piombì in dialetto è il martin pescatore [Gnaga]) e 70 tavole di terreno coltivato in due appezzamenti, uno ai Mulini di Zone (La Fusina) e l’altro a Collepiano (Stretta).

Antonio si sposa una prima volta con Antonia Santi e in seconde nozze con la cugina Innocenza dei Tomasì.

 I Bontempi detti di Gioavan Giacomo

 Dei cinque figli di Battista, Giovanni Giacomo (da cui il soprannome) sposa la cugina Caterina dei Michècc, Maria va in moglie ad Antonio Gigola di Castèl e Giovanna si coniuga con Giovanni Ghitti del Pestù.

 I Bontempi detti di Tempino

Nei primi anni dell’800 Maria Maddalena [1797-1823] - figlia di Francesco che ha solo femmine -  sposa il cugino Piero Bontempi dei Michècc, sua sorella Caterina sposa un Cristini del Todèsch di Pregasso. La famiglia si estingue con Andrea [† 1849], poiché i figli maschi decedono (due nati morti e uno a tre anni).

 I Bontempi detti Tomasì

 Il soprannome è il diminutivo dialettale di Tommaso.

Di loro, oggi, rimane traccia in un appezzamento in Monte di Marone detto ancora Tomasì.

Tommaso sposa una Bonomelli di Parzanica (Bg) e suo figlio Giovanni Battista Maria Marta Stefini di Pilzone; le figlie si sposano rispettivamente Caterina con Battista Gigola di Castèl e Innocenza con il cugino Antonio di Caàl (da cui ha tre figli).

La famiglia dei Tomasì si estingue alla fine del XVIII secolo per la morte prematura dei due figli maschi di Giovanni Battista, Tommaso (a 17 anni) e Giacomo Antonio (un anno).

Rimanendo nell’ambito di questo primo gruppo di famiglie - dall’esistenza effimera di sole tre o quattro generazioni -, un Giangiacom, sposa Caterina dei Michècc, due Tomasì si uniscono a due Caàl, Francesca dei San Bernardo a 20 anni sposa un Michèt, una Tomasì, a 29 anni, sposa un vedovo Caàl e una Tempino a 20 anni sposa un altro Michèt: il matrimonio tra cugini (matrimonio incrociato) riguarda, in questo caso, donne che provengono da famiglie quasi totalmente prive di proprietà terriere, e quindi non in grado di dotare adeguatamente le spose con terreni e forse neppure con denari. L’endogamia, mi pare, non solo strettamente legata, come nei casi che vedremo in seguito, alla povertà (con la conseguente necessità di finalizzare il matrimonio alla salvaguardia o alla ricostruzione ipotetica e futura di un esiguo patrimonio), ma ancor più strettamente vincolata all’impossibilità di alternative. Non è un caso che Innocenza dei Tomasì in età relativamente tarda sposi un vedovo quasi nullatenente con un figlio (cui darà altri tre figli). «La preoccupazione di non appesantire troppo l’economia della comunità con un esborso eccessivo di dote, con il rischio di frazionare troppo il patrimonio e di rendere impossibile il sostentamento dei membri, faceva sì che si ricorresse spesso al matrimonio [doppio, ndr] incrociato per cui il figlio di una famiglia si sposava con la ragazza di un’altra famiglia e viceversa. In questo caso non vi era esborso di dote, ma i figli scambiati avevano nella loro nuova casa diritti uguali a quelli che avevano nella casa di provenienza»[37]: mi pare, anche in assenza di documenti probanti l’effettivo grado di parentela tra i vari Bontempi, che sia appunto quanto riscontriamo in questi matrimoni, anche se non si tratta di matrimoni incrociati “tipici”. In un cinquantennio e due generazioni, per via agnatizia e cognatizia i Bontempi si legano con i Gigola di Castèl e ulteriormente tra di loro.

Alcuni Tempino sposano donne abitanti fuori dai confini del comune - a Sale Marasino, Montisola, Pilzone e Vigolo e Parzanica nella bergamasca -: di loro nulla sappiamo delle rispettive origini (il Buscio non riporta le date di nascita e morte) se non il paese di origine, ma il dato ci informa di rapporti anche con la sponda bergamasca del lago che, tra la fine del ’700 e i primi anni dell’800 sono da riferire anche all’emergente - a Marone - produzione laniera (aree sistema di Marone-Sale Marasino e Gandino-Leffe[38]).

 I Bontempi detti di Rûsa (Rosa) e di Bernardo

Il soprannome deriva dal nome proprio di una genitrice, Rosa moglie di Giuseppe. Il soprannome (scotöm) di famiglia diventa una necessità imprescindibile nel XVIII secolo per la presenza di innumerevoli omonimi: nel ’500 e nel ’600 solo una famiglia, quella del Todèsch, ha un soprannome, anche se non ne mancano di individuali, riferiti in genere alle caratteristiche fisiche o alla professione. Nel XVIII secolo, anche perché prende decisamente il sopravvento la famiglia nucleare rispetto a quella complessa, spesso si ricorre al nome di una genitrice (per eccesso di omonimi maschili dovuti all’abitudine di chiamare il primogenito di ogni famiglia con il nome del padre). Si hanno cosi, per esempio, oltre ai Rosa, i Bontempi Michècc di Angelica o i Cristini di Vittoria, che differenziano ulteriormente le singole famiglie nucleari all’interno di quelli che, culturalmente, sono ancora concepiti come clan.

Nell’estimo del 1573[39] è presente Agostino Bontempi. Nel 1641 i suoi nipoti sono Agostino e Tommaso q. Antonio[40]. Agostino[41] vive, nel 1637, con due fratelli, Stefano (17) e Pietro (che muore tra il ‘37 e il ‘41 a poco più di 10 anni) ed è fortemente indebitato con Pietro Almici; ha due figli, Battista, che rimane celibe, e Giuseppe [† 1725]. Tommaso[42] (17 anni) convive con Giovanni Maria (12 anni). La distribuzione dei beni tra i due fratelli è ineguale e il minore ha maggiori proprietà del primogenito: presumibilmente, Agostino - «havendo bisogno di denari» ha dato a censo all’Almici i terreni ereditati (in tal caso, se i terreni fossero coltivati, dovrebbero avere un’estensione di circa 10 piò[43]).

Nel 1785 i loro eredi sono Agostino q. Giuseppe [1717-1794] e i figli di Bernardo q. Giuseppe [1721-1784], Giuseppe e Maria[44]. Nell’abitazione di Agostino vivono, oltre alla moglie e ai 2 figli di questi, anche i nipoti, figli del fratello (si tratta dunque di una famiglia estesa).

La moglie di Bernardo, Barbara Ghiterli del Pastore - famiglia di origine tedesca ma abitante a Collepiano - si risposa con Antonio dei Michècc e abbandona la casa dopo la morte del marito nel 1784: essa si risposa con un “cognato” e la dote - se esiste - la segue ma rimane all’interno dell’ampio gruppo parentale. Una figlia di Giuseppe q. Bernardo sposa il cugino Pietro dei Zupèi di Ponzano.

La famiglia si estingue per la morte prematura di tutti maschi della famiglia: i beni, in questi casi, sono ereditati dai “cognati” (parenti in linea femminile).

Nel XVI secolo questa famiglia possiede 1½ ettaro di terra coltivata e a pascolo e bosco da cui, probabilmente, trae gran parte del proprio sostentamento; nei secoli successivi, prima, gli eredi si indebitano e, poi, perdono quasi tutta la terra: tra il 1600 e il 1700, da piccoli proprietari autosufficienti, gravati dai debiti, divengono proletari. Su 25 partite di Collepiano nel 1785, sono almeno 22 quelle in cui le proprietà terriere dichiarate non sono assolutamente in grado di soddisfare gli elementari bisogni alimentari. L’impoverimento progressivo e la conseguente proletarizzazione dei contadini locali hanno solo un leggero corrispettivo nell’aumento dell’occupazione nell’attività molitoria[45]: l’attività laniera non si è ancora sviluppata ed è, quasi esclusivamente, concentrata a Sale Marasino e, fino alla metà dell’800, quella maronese non sarà in grado di assorbire la manodopera locale (all’inizio del XIX secolo solo i Guerrini hanno sei dipendenti)[46].

I Bontempi del Torcol

Torcol in dialetto è il torchio per le olive. È l’elemento di continuità, oltre alla proprietà di alcuni appezzamenti, che ha permesso la ricostruzione dell’albero genealogico dalla metà del XVI secolo[47].

I figli di Bartolomeo [1559-1640] si sono «separati» e hanno costituito una propria famiglia nucleare ancora prima della morte del padre. In questo caso non vi sono patrimoni di un certo rilievo da salvaguardare e la divisione del patrimonio avito è già documentata nel 1500 con i fratelli Giacomo e Pietro (vi è traccia, però, di un probabile fedecommesso, relativamente povero, costituito dalla partita 128 - quella appunto del padre defunto - del 1641). È indicativo che membri della stessa famiglia, già nel XVI secolo, abbiano partite diverse, vivano in case proprie - anche se dai confini che sono dati nelle partite d’estimo sono poste nello stesso cortivo - e abbiano terreni che ognuno coltiva per sé. La famiglia complessa - quella in cui convivono più generazioni - si è dissolta nella famiglia nucleare.

I membri del clan originario non sono più legati dal comune possesso dei beni perpetuato dal paterfamilias - che con il patrimonio garantisce la continuità del ceppo - ma continuano ad avere quali leganti, oltre al sangue, da un lato il possesso di un determinato territorio (i Bontempi e, in parte, i Gigola Collepiano, gli Zanotti e i Cristini Pregasso, i Guerini Vesto, i Ghitti Ponzano e Marone) e, dall’altro, la convivenza nello stesso cortivo. Quest’ultimo - nato più per bisogno di marcare lo spazio clanico che per necessità di difesa da nemici esterni - accentua, dunque, almeno dal XVI secolo in poi, questa sua funzione. Non a caso si ritrova che l’estraneo che per motivi ereditari diviene proprietario di una porzione di fabbricato dichiari di vivere nel cortivo di altri.

Nel 1700 la famiglia dei q. Pietro era denominata del Torcol (il loro cortivo, infatti, fin dal 1500, aveva al proprio interno un torchio) il cui capostipite è il figlio di Giovanni Maria che nel 1641 ha 14 anni, Pietro Antonio q. Giovanni, sposato con una certa Maria Maddalena.

Nell’estimo del 1785 eredi di Pietro Antonio, capostipite nell’elaborato settecentesco, sono il figlio Giacomo e la nipote Chiara figlia di Battista, sposata con un Bontempi dei Michècc[48].

I Bontempi detti Bergamasch

Maffeo Bontempi è il capostipite identificato da Giorgio Buscio[49]: ha tre figli, Geronimo [† 1737], Giuseppe e Battista[50].

La genìa di Giuseppe non ha lunga vita. Egli sposa Maddalena, da cui ha i figli Pietro, Ludovica e Maria: il solo Pietro si sposa - con Laura Guerini della famiglia di Vesto detta dei Frà de là - e dal matrimonio nascono due figlie, Francesca e Maddalena [† 1834], rispettivamente sposate con Antonio Bontempi dei Michècc e con Stefano Gigola[51].

La progenie però continua con Geronimo, che sposa Orsola Cristini [† 1749] da cui ha un figlio, Maffeo[52] [† 1779], e quattro figlie, Domenica, Maria, Marta e Francesca.

 I Bontempi detti Michècc

 Il michèt è, in dialetto, una pagnotta.

Nel 1785 Antonio q. Giovanni q. Antonio dei Michècc ha partita nell’estimo; hanno partita anche Giacomo q. Antonio (fratello del nonno Giovanni, celibe di circa 70 anni) e Giovanni Maria q. Antonio [1734-1803] detto di Angelica. Alla data dell’estimo settecentesco il clan dei Michècc è costituito, quindi, da tre nuclei famigliari economicamente indipendenti[53].

Antonio q. Giovanni q. Antonio [1747-1817] si sposa in prime nozze con Francesca Bontempi dei Bergamasch e in seconde nozze con Barbara Ghiterli figlia di Bartolomeo detto Il Pastore che a sua volta, rimasta vedova, si risposa con Bernardo Bontempi dei Rûsa e Bernardo (vedi ad vocem); una nipote di Bartolomeo, Maria Maddalena figlia di Antonio Lorenzo, sposa Francesco Gigola del Castel. Il primogenito di Antonio, Giovanni sposa Maria Chiara Bontempi del Torcol [1766-1803]. La secondogenita Maria si coniuga con Giuseppe Bontempi dei di San Bernardo (il ramo maschile di questa famiglia si interrompe alla fine del XVIII secolo). Nel XIX secolo i matrimoni incrociati proseguono. Il secondogenito di Giovanni, Antonio [1796-1867] sposa Maria Maddalena Bontempi dei Tempini [1797-1824], famiglia la cui discendenza maschile si interrompe nei primi anni del XIX secolo. Francesco [1807-1864] (che sposa in prime nozze Francesca Gigola) si coniuga, nel 1850, con Maddalena Bontempi di Maffeo e sua sorella Francesca [1809-1844] sposa un Pietro Bontempi. Giuseppe q. Giovanni q. Antonio [1753-1832] sposa Francesca Bontempi q. Pietro q. Lorenzo dei San Bernardo [1763-1796] (questi si risposa altre due volte con Margherita prima e Maria poi di cui non conosciamo il cognome: dai tre matrimoni nascono solo figlie per cui il ramo genealogico si estingue).

Non è solo la ricorrenza del cognome, ma vincoli di sangue e conseguenti interessi economici comuni, quelli che uniscono le famiglie di Collepiano: i Michècc, nel XVIII secolo, sono imparentati con i Bergamasch (che sono legati anche con i Torcol e i Gigola), i Torcol (cognati anche dei Gigola), i di San Bernardo (a loro volta imparentati con i Gigola), i Rûsa e Bernardo, i Tempini e i GianGiacomo (a loro volta legati anche ai Gigola), con i Gigola del Castel, con i Ghiterli del Pastore, con i Pellegrinelli, con i Cristini dei Signorelli.

Ognuna di queste famiglie è annodata alle altre da complessi legami agnatizi e cognatizi per cui non può stupire che negli estimi si ritrovi «una stanza terranea descritta in Catastico 1727 alli Heredi del q. Giacomo Bontempi q. Giovanni Tezola, olim di ragione del q. Giacomo Bontempi q. Giacomo» e poi proprietà, ereditata, di Giovanni Maria dei Michècc.

L’unica famiglia che ha scarsi legami parentali nel territorio è quella Bonfadini.

Lorenzo e Caterina Bonfadini - costituiscono una famiglia di Antichi Originari, nel 1573 vi sono gli eredi di Bonfadino Bonfadini - abitano a Collepiano e hanno, nel primo ventennio del XVIII secolo, un solo figlio, Bonfadino detto Tadino [muore dopo il 1785]. Questi, sposatosi con Caterina (forse una Ghitti dei Pestù di Ariolo), ha, a sua volta, una sola figlia, Santa [1744-1816] che si coniuga, il 24 settembre del 1794, con Francesco Riganti q. Giovanni Battista [1766-1819], originario della «diocesi di Milano». Tadino è benestante (ha due case di proprietà e oltre 3 piò di terreno arativo, vitato e olivato); la figlia ha qualche problema di salute (mentale?, visto che comunque vive fino a 72 anni) e si sposa a 50 anni con un nullatenente di 28 anni « ché da molti anni pativa reso scemo di mente».

È lo stesso parroco Buscio che racconta la storia di Francesco Riganti, milanese: «Il sopradetto Riganti ché per qualche tempo era tenuto a spesa da Pietro Antonio Guerini segretamente gli è fuggito via di casa, già per un qual di [ill.], ché da molti anni pativa reso scemo di mente. Venuto da giovinetto in questo paese hà servito a diversi in qualità di famiglio dietro le pecore; indi ammogliatosi con la sopradetta Santa Bonfadini, e dopo esser vissuto con essa molti anni è stato lasciato da quella erede delle sue domestiche facoltà; ma morta la medesima egli la hà poi malamente distratta, e vedendosi quasi alla fine di tutto, disperatamente s’è tolto via dal paese, ne si è saputo qual fine esso abbia fatto se non alla fine della strada, essendo trovata nuova (il Riganti ha perso la retta via e si è suicidato, ndr.) sulla cima di uno di questi monti detto la Strenada» il 4 gennaio 1819.

Storia di disagio mentale e di povertà, brevemente illuminata dal benessere rapidamente dissipato, che si conclude drammaticamente; ma soprattutto vicenda di solitudine - gli ultimi anni non li trascorre con parenti ma da un conoscente che per carità o interesse lo tiene segregato - in cui sono assenti del tutto i legami di mutualità («tendenza associazionistica promossa dalla necessità [sottolineatura mia] di una reciproca garanzia di tutela e di assistenza», recita il Devoto-Oli) che invece legano gli altri abitanti di Collepiano.

La famiglia Gigola

Nell’estimo 1573 abitano a Collepiano tre famiglie Gigola[54]; cinque Gigola risiedono a Ponzano[55]. Nell’estimo del 1641 i gruppi famigliari Gigola di Collepiano sono cinque[56]; a Ponzano ve ne sono otto[57]. Nell’estimo del 1785[58] su 7 famiglie Gigola censite a Collepiano 6 sono dette di Castèl (toponimo) per avere casa in questa località: è evidente che il soprannome della famiglia sia da riferirsi al possesso del territorio. La voce fuori dal coro è la famiglia detta del Tezöl (toponimo in Monte di Marone) di cui è capostipite Giovanni Battista [† 1779].

Tra il secolo XVI e il XVIII i contadini maronesi si impoveriscono progressivamente: tra le ragioni della miseria (oltre a quelle congiunturali) vi è, non secondaria, la frammentazione dei  patrimoni famigliari dovuta alla trasformazione del «fuoco» nella famiglia nucleare. L’aumento della popolazione e delle famiglie, il sistema dotale, la divisione della proprietà tra i figli alla morte del genitore, il crescente ricorso al credito censuario (per pagare le tasse e poiché è minore la porzione dei prodotti di autoconsumo) - in una situazione geografica che permette solo parzialmente l’incremento delle zone coltivabili con dissodamenti, ciglioni e terrazzamenti - e, infine, la mancanza, fino alla metà dell’800, dell’alternativa industriale mi paiono le maggiori concause locali.

A siffatta situazione, in parte, si cerca di porre rimedio, oltre che con la solidarietà tra consanguinei, istituzionalmente, con il rafforzamento degli enti di carità[59] (che sopperiscono in parte alla perdita delle proprietà collettive) e, individualmente, con il fedecommesso[60] e i matrimoni tra cugini.

Tra il 1776 e il 1870, almeno per quanto riguarda le famiglie Bontempi e Gigola, su 91 matrimoni la cui provenienza del coniuge è certa 11 sono incrociati, 17 avvengono tra altri residenti di Collepiano, 34 tra abitanti di altre località di Marone e solo 29 con persone di altri Comuni (prevalentemente della Riviera sebina).

 

incrociati in Collepiano altro Marone fuori totale
Bontempi 10 11 19 21 61
Gigola 1 6 15 8 30

 

A Marone, nel 1573, 2 partite di Cittadini e 4 di Contadini sono intestate a eredi che presumibilmente mantengono indivisa la proprietà dei beni (sono esplicitamente dichiarate indivise 7 case e 37 appezzamenti di terreno per un’estensione di circa 87 piò). Nell’estimo 1641 undici partite di Contadini sono di «x e fratelli [o fratello] q.» e la proprietà indivisa riguarda soprattutto i mulini. Nell’estimo del 1785 una sola partita, quella dei cugini Ghitti di Bagnadore, parla espressamente di fedecommesso, ma implicitamente a esso si riferiscono le numerose partite collettive intestate a «fratelli q.» o a «heredi del q.». L’istituto del fedecommesso non è dunque ravvisabile esclusivamente nelle famiglie nobiliari, ma anche in quelle benestanti (i Ghitti) e, di fatto, anche in quelle povere (con la cessione ereditaria di alcuni beni in forma indivisa).

La maggiore minaccia all’integrità e alla sorte del patrimonio famigliare, nella società di Antico Regime, era costituita dalla parcellizzazione dovuta al costituirsi di nuove famiglie nucleari prima della morte del paterfamilias (divisione dei beni tra gli eredi, poi eventualmente aggravata dalle doti dovute alle figlie): in situazioni quali quella geograficamente limitata di Collepiano, oltre alla primogenitura, per salvaguardarne l’unità si ricorre al celibato (coatto o per scelta) e ai matrimoni endogamici, con alta percentuale di quelli tra cugini.

Il celibato maschile e il nubilato femminile sono tutt’altro che inconsueti (basta scorrere gli alberi genealogici dei Bontempi e dei Gigola per notare l’alto numero di celibi e nubili) e sono le maggiori cause - con la mancanza o la morte prematura degli eredi maschi - dell’estinzione delle famiglie. Non ci si sposava per divenire prete o suora[61] - in questo caso la figlia doveva avere una dote da devolvere al monastero e il figlio di un patrimonio che costituisse il proprio beneficio - o si rimaneva senza consorte per volontà dei genitori o per povertà.

La tabella mi pare mostri che l’uso del matrimonio endogamico[62] - all’interno del paese che della famiglia - sia, nel caso di Collepiano, tipico delle realtà economiche povere; l’obbligo stesso della dote veniva in questo modo mitigato dalla certezza che essa rimaneva, comunque, all’interno del clan[63]: infatti, nel XVIII secolo in un clan discretamente benestante, quello dei Ghitti, su un totale di 77 matrimoni  di cui si conoscono entrambi i coniugi, quelli tra cugini sono solamente 5 (e riguardano le famiglie meno abbienti del clan), 42 sono tra maronesi e 30 sono fuori dai confini del comune (si allargano, rispetto ai Bontempi e ai Gigola anche i confini: Riviera sebina, Bassa, Valtrompia e Valcamonica).

I cugini incrociati sono, propriamente, i figli del fratello della madre e i figli della sorella del padre. Nella tabella sono indicati come incrociati solo quelli patrilineari: non è dato sapere l’effettivo grado di parentela, ma è certo che, a questa altezza cronologica, tutti i membri del clan fossero in qualche grado parenti. La finalità del matrimonio incrociato (e/o doppio: matrimoni in cui le spose e/o gli sposi sono fratelli; in questo caso la dote non esiste) è sempre la salvaguardia del patrimonio, che in questo modo, da un lato, rimane all’interno del clan e, dall’altro, in prospettiva - tramite oculate politiche dotali e testamentarie - è destinato a ricongiungersi. Sinteticamente e schematicamente, se A sposa la cugina B questa gli porta X di dote: in caso di premorienza del marito la dote ritorna alla famiglia di B; in caso di premorienza di B questa viene incamerata da A, che lascia il complesso dei beni in eredità ai figli; in caso di mancanza di maschi i beni di A e B passano ai fratelli di A (tra cui la famiglia B) o ai loro eredi. In ogni caso l’eredità (e la dote) rimane all’interno della famiglia A o delle famiglie A+B.

Che il destino del patrimonio famigliare fosse l’assillo dei paterfamilias nei secoli tra 1500 e 1700 è documentato - nelle pergamene dell’archivio parrocchiale - dalle vicende di una famiglia Gigola. È il caso di Marco Antonio Gigola (benestante di Ponzano che non ha figli maschi, ma fratelli e nipoti). Egli riesce, con un’accorta politica famigliare, a garantire un futuro certo alla figlia e, nel contempo, a mantenere il patrimonio unito, lasciandolo indiviso tra l’unico fratello vivente e il nipote, figlio del fratello morto.

Nella pergamena 4 [1 settembre 1529] dell’archivio parrocchiale Tonino q. Pietro Cassia, su richiesta del cognato Marco Antonio q. Bernardo q. Antonio Gigola di Ponzano, dichiara davanti al notaio e ai testimoni di aver ricevuto da quest’ultimo lire sessanta per la dote di Maria sua moglie e sorella di Marco Antonio con le clausole relative al contratto di dote come contenuto negli Statuti di Brescia[64]. Nel XVI secolo i Cassia sono una famiglia di notabili maronesi (uno di loro ha quote del forno fusorio).

Nella pergamena 9 [2 giugno 1560] Marco Antonio q. Bernardo Gigola[65] e suo cognato Pietro q. Francini de Gittis di Marone cedono a Bartolomeo Cassia di Marone la dote «et legitima paterna» di Caterina, sua moglie e figlia dello stesso Marco Antonio, costituita da rendite, diritti enfiteutici e alcuni mobili del valore complessivo di 125 lire e 18 soldi. Questi due documenti testimoniano non solo che Marco Antonio Gigola è diventato cognato dei Cassia (sua sorella ha sposato il Tonino della pergamena 4); egli vuole rinsaldare ulteriormente il proprio legame con la benestante famiglia diventandone suocero.

La pergamena 10 è il suo testamento. Marco Antonio è malato e sente prossima la morte: convoca presso il proprio capezzale il notaio Antonio Zeni di Marone e i sette testimoni (di cui sei sono suoi parenti) e detta le proprie ultime volontà.

Destina - quali legati per l’anima e in rimedio dei suoi peccati - parte del suo denaro alla celebrazione di alcune messe Gregoriane; lascia lire 20 planette alla fabbrica di S. Pietro e un «ducatto in cera labo[ra]to» alla chiesa di San Martino. Dispone inoltre che «quartas viginti furmenti in pane cocto» siano distribuiti, in sette anni, a Natale e a Pasqua, ai poveri del paese.

Lascia 50 lire planette alla sorella Caterina, moglie di Antonio Cassia; all’altra sorella, Agata, moglie di Bartolomeo Zatti di Zone, dispone che vengano date 30 lire. A sua figlia Caterina, moglie di Bartolomeo q. Antonio Cassia (che è suo nipote e genero), sono destinate, oltre alle 200 lire planette date con il contratto di dote (pergamena 9), altre 300 lire. A Fonina, moglie di Marco Antonio, restituisce la dote di 100 lire e la rende usufruttuaria dell’abitazione di Ponzano, con il diritto al vitto e al vestiario purché si mantenga «casta onesta et sine marito». A Caterina - vedova del fratello Giovanni Geronimo, che è sotto la tutela del testatore - lascia l’usufrutto dell’abitazione del fratello, che diventa proprietà effettiva del loro figlio Bernardino; Marco Antonio e suo fratello Tonino vantano, inoltre, nei confronti dei fratelli Pietro e Battista q. Francesco Ghitti un credito di 140 lire per la sua dote, che è regolata secondo gli Statuti di Brescia.

Il resto dei beni è lasciato «equaliter et equis portionis», cioè indiviso e in parti uguali - è quindi un fedecommesso, anche se non è esplicitata l’inalienabilità - al fratello Tonino e al nipote Bernardino q. Geronimo. Quale sia l’entità di questo fedecommesso, sebbene non dichiarato nel documento, è rivelato dalla partita dell’estimo del 1573.

È questo un caso sufficientemente provato di una ben precisa politica famigliare condotta da un paterfamilias privo di eredi maschi: da un lato costruisce un solido futuro all’unica figlia, Caterina, facendola sposare con un membro della facoltosa famiglia Cassia, dall’altro vincola il proprio patrimonio - pur senza proibirne la vendibilità, lo lascia indiviso rendendo l’alienazione più difficile - ai suoi eredi diretti, il fratello e il nipote. In tal modo il sangue e la proprietà - la continuità e l’unità della famiglia, fine ultimo dell’esistenza di Marco Antonio e dei suoi contemporanei - è garantita.

Un’ulteriore minaccia all’unità della famiglia era costituita dall’abbandono della casa paterna prima della morte del paterfamilias. Il figlio «separato» poteva essere diseredato, ma generalmente si giungeva a un compromesso costituito da un legato, contrattualmente stabilito fuori dal testamento e poi in esso ratificato, con cui il padre cedeva alcuni beni al figlio, ma lo escludeva dall’asse ereditario. È il caso della pergamena 3 in cui Guerino figlio di Merito Guerini lascia al figlio Bettino una terra in parte arativa e in parte a prato e a oliveto, situata in Marone, in contrada de la Volta ed un’altra situata in contrada Bagnadore, lo affranca dai livelli e gli concede una somma in denaro di sei lire e sedici soldi «taliter quod dictus Betinus sit tacitus et contentus et amplius non petere possit, dicto Guerino eius patri nec et aliis filiis dicti Guerini et fratribus dicti Betini»; il legato è, dunque, fatto a condizione che Bettino si accontenti di ciò che gli è stato dato e non debba avanzare ulteriori pretese. Il figlio che si separa dal nucleo famigliare è escluso dal resto dell’eredità: in caso di mancanza di altri eredi maschi nella famiglia di origine, l’eventuale fedecommesso passa ai suoi figli, anche se egli è ancora in vita. L’abbandono della casa di famiglia è considerato una colpa grave e non emendabile, perché costituisce un attentato all’integrità del patrimonio.

Un ulteriore punto di partenza?

Sebbene estremamente povera la comunità di Collepiano è culturalmente viva attorno all’oratorio di San Bernardo. Di là dalle convinzioni religiose che spingono una comunità a raccogliersi (ancora oggi in forme molto sentite) intorno alla chiesa, un ulteriore motivo di ricerca - oltre all’accennata volontà di auto-rappresentazione (che necessita anch’essa di ulteriori studi) - mi pare si possa trovare nella qualità (oltre che nella quantità) di questa eredità. Solo per citare i lasciti più rilevanti abbiamo il portale seicentesco di squisita fattura, il paliotto della bottega del Calligari, una pala dell’Amigoni, due tele di Pompeo Ghitti e una di Domenico Voltolini, i candelieri e i cartagloria e i calici, etc. che denotano, come dice Michela Valotti, «la presenza di una vivace comunità di fedeli, sensibili estimatori del bello».

In questo caso, come in altri simili, la coscienza di sé e la sua trasmissione si identificano con il «bello» che pare in palese contraddizione con la miseria materiale, cui dovrebbe [?] corrispondere la miseria culturale.

Ritengo, che tra 1500 e 1700, gli abitanti di Collepiano - e più in generale di Marone - si siano rivolti a determinati autori piuttosto che ad altri non solo perché spinti dai parroci o perché quegli artisti erano molto attivi in zona - in particolare Amigoni, Ghitti e Voltolini. A Pregasso operano, in epoche diverse, Antonio Gandino, Francesco Giugno e Bernardino Bono; a Marone quasi tutta la parrocchiale è opera di Domenico Voltolini; nella chiesa di Vesto la pala è di Bernardino Bono - ma soprattutto perché la coscienza del bello era un fatto sociale diffuso e parte integrante della cultura individuale e collettiva[66].

Non si tratta di trovare una cultura contadina autonoma e autosufficiente (che escludo), ma di scoprire, come - in opposizione alle avverse condizioni materiali, alle morti premature dei figli e delle mogli, ai magri raccolti (o, forse, proprio per questo) - gli abitanti di una frazione di poco più di 100 abitanti abbiano voluto e saputo trasmettere, di generazione in generazione per oltre 500 anni, questo piccolo gioiello di arte e cultura: la propria chiesa.

Che testimonia, di fronte all’involuzione (o al decadere?) dei nostri gusti estetici, che almeno da questo lato abbiamo molto da imparare dai nostri avi.

 

[1] È consultabile on-line all’indirizzo http://esx-archiviomi.cilea.it:8080/Divenire/document.htm?idUa=10644129&idDoc=10644131&first=1&last=1: vi sono le carte di tutti i comuni della Riviera sebina.

 

[2] Casa con stanze terranee a involto, camere al primo piano, solaio, tetto di coppi; cortile chiuso da un portone.

 

[3] Vedi in questo volume il saggio di Renato Benedetti.

 

[4] Nel 1573 vi sono 19 abitazioni che sono esplicitamente collocate in Collepiano (su un totale di 89 sicuramente poste nei centri abitati del comune); nel 1641 (su un totale di 223 fabbricati) le 28 famiglie censite a Collepiano (ma 4, il 14 %, non vi abitano) possiedono 33 case di cui 23 sono cortivo, 11 case hanno l’orto e 4 hanno un ampio terreno adiacente (dalle 40 tavole a oltre due piò), 1 ha la stalla, 6 hanno stalla e fienile e due il solo fienile (vi sono inoltre, sparse, cinque stalle con fienile e 4 stalle, ma solo 4 estimati dichiarano di avere bestiame, 5 mucche da latte in totale).

 

[5] C. Pasero, Dati statistici e notizie intorno al movimento della popolazione bresciana durante il dominio veneto (1426-1797), in Archivio Storico Lombardo, LXXXVIII, s. IX, pp.71-97, consultabile on-line al sito http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Aemeroteca.braidense.it%3A38%3AMI0185%3AEVA_113_A62081&teca=Emeroteca+braidense; M. Dottti, Relazioni e istituzioni nella Brescia Barocca. Il network finanziario della Congreda della Carità Apostolica, Milano 2010, pp. 49-50.

 

[6] M. Dotti, Relazioni e istituzioni nella Brescia Barocca… cit., p. 69.

 

[7] L’aumento del 31% della popolazione in 18 anni mi pare eccessivo, tanto più che nel 1573 (visita Pilati) la popolazione era di 650 abitanti e che nel 1575-77 vi era stata la peste di San Carlo.

 

[8] Alcune notizie che si riferiscono all’agricoltura locale in R. Predali, [a cura di], Marone tra 1500 e 1600: l’antica parrocchiale, Marone (Bs) 2008 e in R. Predali [a cura di], La chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Pregasso: storia, arte e tradizione, Marone (Bs) 2010.

 

[9] Vedi R. A. Lorenzi, Medioevo camuno - proprietà classi società, Brescia, 1979; M. Knapton, Cenni sulle strutture fiscali nel Bresciano nella prima metà del Settecento, La società bresciana e l’opera di Giacomo Ceruti, [a cura di M. Pegrari], Atti del convegno Brescia (25-26 settembre 1987), Brescia, 1988; D. Montanari, Il rapporto capoluogo-territorio nel declino veneto, Brescia e il suo territorio, Milano, 1996; A. Tagliaferri [a cura di], Relazioni dei rettori veneti di Terraferma, Podesteria e capitanato di Brescia, Milano 1978; http://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/100024/. Per la vicinia di Marone, in attesa di ulteriori ricerche, rimando a R. A. Lorenzi, Famiglie consortili e comunità rurale in terra bresciana (secoli XVI-XVIII), in Marone, immagini di una storia, Marone (Bs), 2005, pp. 203-233.

 

[10] Nel XVIII secolo fu costruita ex-novo la chiesa di Vesto, per espressa volontà degli abitanti della frazione e contro il parere dell’allora parroco Bartolomeo Ghitti. Vedi A. Morandini, Marone sul lago d’Iseo. Memorie antiche e recenti, Breno (Bs) 1968, p. 149 e sgg.; il Morandini riporta sparse, scarse e frammentarie notizie relative a Collepiano.

 

[11] Che non ho avuto modo di consultare.

 

[12] In A. Fappani, I santuari nel bresciano 5, Brescia 1983, pp. 61-62. Nel 1567 il Bollani la descrive come una cappella aperta («[…] inoltre c’è una chiesa o cappella da nessuno governata che è tenuta aperta; [il rettore, ndr] dice anche di essere obbligato a recarsi in occasione del Sabato Santo a concelebrare con il reverendo Arciprete di Sale Marasino negli uffici divini»), senza uffici regolari; nel 1573 il Pilati ne ordina la chiusura mediante cancello («Oratorio di San Bernardino in contrada di Collepiano che non possiede alcun bene, dove si è consueti celebrare nella festa del Santo […]. Il Comune faccia chiudere con un portone in ferro o in legno, si tenga chiusa e nel frattempo non vi si celebri») e nel 1578 il Celeri la descrive già chiusa da cancelli con pareti imbiancate e dipinte («Oratorio di San Bernardino in Collepiano di Marone. È dotato di volta in muratura, chiuso da una porta di legno, ha in parte le pareti imbiancate e in parte dipinte. L’altare ha delle immagini dipinte sulle pareti, il gradino è dipinto; la tovaglia, i candelabri di legno e la croce sono dipinti. Non si celebra in questo Oratorio se non per necessità di comunicare gli ammalati che abitano nei paraggi. Il Comune procuri della tela verde»). Nella visita Borromeo è così descritta: «Cappella di San Bernardo. Si trova collocata a un certo punto sulla via [per Zone, ndr]. Chiusa frontalmente da una cancellata in legno con un altare, in cui si celebra di quando in quando e specialmente quando si deve amministrare la Santa Eucarestia a un ammalato, poiché questo luogo dista dalla parrocchiale mille passi». A seguito della visita pastorale del Morosini nel 1593 viene ordinato il restauro delle pitture («Nell’Oratorio di San Bernardino di Collepiano. Si restaurino le pitture vecchie e corrose. Si pongano delle tele cerate alle finestre»). Alla fine del ’600 - visita Gradenigo - la chiesa riceve «pochissime elemosine ed è governata da due sindaci e da un massaro con la direzione parrocchiale» e, agli inizi del ’700 - visita Barbarigo -, per l’amministrazione «vi si provvede parte per le elemosine parte con le spese della Comunità». È solo, dunque, almeno fino al legato Bontempi, per l’intervento soprattutto della popolazione della frazione che la chiesa è celebrata e mantenuta decorosa. I testi delle visite pastorali cinquecentesche in R. Predali, [a cura di], Marone tra 1500 e 1600: l’antica parrocchiale, Marone (Bs) 2008, pp. 92-118.

 

[13] Semplificando, intendo che l’edificio fisico della chiesa di Collepiano sia, per i poveri suoi abitanti, auto-rappresentativo allo stesso modo che il castello lo era per il feudatario o la «villa» per il Cittadino del 1500 e del 1600. Per l’auto-rappresentazione e l’identità (intesa come consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo): v. la voce Identità personale e collettiva in  http://www.treccani.it/enciclopedia/identita-personale-e-collettiva_%28Enciclopedia-delle-Scienze-Sociali%29/; v. anche, in http://www.club.it/culture/culture2005-2006/02culture.pdf, E. Colombo, Decostruire l’identità. Individuazione e identificazione in un mondo globale.

 

[14] L’estimo è un catasto senza mappa e la partita è la dichiarazione - fatta dal titolare e verificata dagli estimatori - delle proprietà. Al fine di non appesantire ulteriormente l’apparato delle note, di seguito sono riportate le segnature (quando esistono) relative agli estimi e ad altri documenti consultati e più volte citati. L’estimo del 1573 è conservato presso l’Archivio Storico del Comune di Marone (senza segnatura al momento della consultazione) - vi sono le partite dei Cittadini e Contadini, manca l’estimo del Clero e quello dei Forestieri - ed è consultabile on-line nel sito www.maroneacolori.it al link Roberto Predali fotografo (vi sono le immagini del documento originale, la trascrizione e le tabelle riassuntive. Dell’estimo del 1641 sono disponibili tre varianti complete (Cittadini, Contadini, Clero, Forestieri): la versione del 1637, in Archivio Storico del Comune di Marone (senza segnatura al momento della consultazione) - con annotazioni effettuate tra quella data e il 1641 - che riporta, oltre alle proprietà dell’intestatario, l’elenco dei membri maschi della famiglia e la loro età al 1637, poi corretta in quella del 1641 (per es., in partita 1 «Stefano Ghitti q. Gasparino de anni 46 50» oppure con annotazioni «morto» o «il deto è absentato non si sa dove sia»; quella conservata presso l’Archivio di Stato di Brescia - ASBs, Catasto Antico, estimo 1641, Marone - (in fotocopia in Biblioteca Comunale di Marone: è la versione usata per la trascrizione delle partite); la terza è quella dell’estimo del 1641 conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Marone (titolo IX/5/1/3): per avermene permesso la consultazione ringrazio il parroco don Fausto Manenti. Solo la versione del 1637 contiene i dati riguardanti la composizione della famiglia. Le tre varianti coincidono nella sostanza dei dati catastali (con alcune eccezioni - di scarso rilievo in questo contesto - relative alle partite di defunti); di poco conto, a un’analisi superficiale, le differenze lessicali mentre sono notevoli le varianti nei toponimi (una stessa località è spesso indicata con toponimi diversi, poiché ogni proprietà, pur collocata in una determinata contrada, aveva uno o più nomi diversi: per es. il terreno denominato - «in contrada di» - Pavone o Scadicle era, contemporaneamente, anche in «in contrada di Termini». Nel 1573 il termine quondam [q.] ricorre 48 volte, nel 1641 (variante ASBs) il q. ricorre 338 volte: il dato è indicativo. Tra le due date l’aumento degli omonimi determina l’indispensabilità del patronimico. È necessario, inoltre, considerare che i beni si trasmettevano, di norma, di padre in figlio solo per via ereditaria. L’estimo del 1785 è in Archivio Parrocchiale di Marone, titolo IX/5/1/2: è un volume in folio di 214 pagine con le partite dei maronesi e dei forestieri. Il documento presenta alcune difficoltà di lettura, in quanto è stato rilegato squinternato. Sempre nell’ Archivio Parrocchiale di Marone è il Libro del Massaro (catalogato da Daniela Omodei come «Libro delle Masserie della chiesa di Marone 1725-1802», titolo VI/1/3, ma in cui, in realtà, sono riportate le entrate e le uscite del Comune Rurale). Un’osservazione relativa alle undici pergamene dell’ Archivio Parrocchiale di Marone, che mi pare sia sfuggita all’attenta opera di catalogazione e studio di Daniela Omodei (v. nota 20) - collocate al titolo XII/1/1-11: esse, di fatto, costituiscono un unico corpo relativo agli interessi delle famiglie Gigola e Guerini nel XVI secolo.

 

[15] Nell’estimo di quell’anno possiede il 38% delle case, il 63,5% dei terreni e il 53,3% del valore dei beni degli abitanti della frazione (6227 lire di cui 920 di case, su un totale di 11667 lire) e il 5% dei beni dei contadini del Comune (che ammonta a 122421 lire)

 

[16] partita 116 dell’estimo del 1573, cc. 29r e 29v e p. 74 (pdf). Agostino Bontempi possiede una casa con orto, 6 appezzamenti di terra - in parte coltivati a cereali, vite e olivo e in parte a pascolo - per 219 tavole (poco più di due piò)  e una vacca da latte; paga livello sul capitale di 44 lire.

 

[17] partita 66, Ibi, p. c. 19r e p. 54 (pdf). Antonio de Maffeo Bontempi possiede una casa con orto, 7 appezzamenti di terra - in parte coltivati a cereali, vite e olivo - per 346 tavole (3 ½ piò); paga livello sul capitale di 62 lire e ha un debito di 30 per livelli non pagati.

 

[18] partita 102, Ibi, cc. 27r e 27v e pp. 67-68 (pdf). In generale, la convivenza di due o più famiglie - testimoniata dalla partita collettiva - è dovuta all’esistenza del fedecommesso nel testamento del padre o di un avo che obbliga gli eredi all’inalienabilità e all’indivisibilità del patrimonio (o di clausole che, lasciando indivisa la proprietà dei beni, li rendevano difficilmente alienabili). I fratelli Bartolomeo e Pietro Bontempi - sono i maggiori possidenti della frazione - possiedono un cortivo con orto stimato 200 lire, 14 appezzamenti di terra per 1457 tavole (14½ piò di cui 8 sono un pascolo in prossimità del Gölem) - in parte coltivati a cereali, vite e olivo - e una stalla, allevano 3 vacche da latte e 3 capre; pagano due livelli sul capitale di 249 lire e hanno un debito di 5 lire.

 

[19] Iacobus de Bon[te]mpis compare anche - unico - nelle pergamene dell’archivio parrocchiale di Marone, nel documento 8 alla riga 26, ma solo nella definizione dei confini di una proprietà di terzi: v. D. Omodei, Contributo alla catalogazione delle pergamene del Sebino: le pergamene dell’Archivio parrocchiale di Marone, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Sede di Brescia, Facoltà di Lettere e filosofia, a. a. 1997/1998, relatore A. Masetti Zannini. Ringrazio Daniela Omodei per avermene dato una copia. I fratelli Giacomo Bontempi [q. Pietro] e Pietro hanno due partite distinte; (v. ad vocem Torcol). Partita 108, Ibi, c. 28r e p. 70 (pdf) e partita 91, Ibi,  c. 27r e pp. 61-62 (pdf). Che il figlio si chiami come il padre si riscontra abbastanza frequentemente nei documenti consultati.

 

[20] Partita 20, Ibi, cc. 10r e 10v e p. 37 (pdf). Gli eredi di Giovanni Bontempi possiedono una casa con 6 appezzamenti di terra - in massima parte coltivati a cereali, vite e olivo - per 251 tavole (2½ piò) e una vacca da latte. Nell’estimo del 1573, sempre a Collepiano, vi sono due fratelli Bo o Bon. Non sono Bontempi, ma Boni, pare provenienti da Sale Marasino, come viene definita questa famiglia nel 1641. Michel del Bo (partita 95) possiede una casa con orto stimata 60 lire e 8 appezzamenti di terra - in parte coltivati a cereali, vite e olivo - per 685 tavole (circa 7 piò di cui 4 ½ a pascolo) e una stalla estimati 620 lire. Paga livello sul capitale di 143 lire. Bartolomeo (partita 99) - fratello di Michele - possiede una casa con orto stimata 80 lire e 7 appezzamenti di terra - in massima parte coltivati a cereali, vite e olivo - per 270 tavole (circa 3 piò) estimati 491 lire. Paga livello sul capitale di 16 lire.

 

[21] I due figli del defunto Andrea, Giacomo - 30 anni - e Giovanni - 23 anni - che non abitano a Collepiano, ma sulla Riviera gardesana: Giacomo è proprietario  di una casetta; suo fratello possiede solo 8 tavole di terreno in contrada Dossi (i dati del ’37 differiscono da quelli del ’41: ne 1637 Giovanni possiede una casa e circa 1½ piò di terreno): vedi partita 132 e 133. Inoltre, a Marone abitano Ludovico q. Battista Bontempi (partita 53) e Tommaso Bontempi q. Francesco (partita 84). Per le partite dell’estimo 1641 dei residenti a Collepiano vedi il saggio di Valsecchi e Vezzoli.

 

[22] v. ad vocem Rûsa [Rosa] e Bernardo.

 

[23] Vedi partita 119, nell’estimo 1641. Nel 1637 Battista vive con i fratelli Maffeo, che è il maggiore, e Salvatore (che muoiono tra il ’37 e il ’41).

 

[24] Vedi partita 203, Ibi.

 

[25] Vedi partita 123, Ibi. Comino è diminutivo di Giacomo: ha 74 anni nel 1637 e muore poco dopo ma ha la partita 203 nel 1641: è sicuramente il padre poiché nelle due partite - del genitore e dei figli - compare il medesimo livello alla parrocchiale di Marone. Suoi sono Lorenzo (34 anni nel 1641) - sposato e ha quali figli Giovanni Pietro (18), Giovanni (13) e Antonio (5) - e Giovanni Battista (30), anch’egli sposato con un figlio, Giacomo di 5 anni. Coabitano, almeno fino al 1637, tre generazioni e tre famiglie in tre case contigue che costituiscono un unico cortivo, in cui ha l’abitazione anche Lorenzo Bontempi. Sono senza dubbio gli eredi del Giovanni che nel 1573 ha la partita 20: la proprietà di alcuni terreni in Grumello e nei pressi di San Pietro ricorre nei due estimi. Vedi partita 20 del 1573, Herede de Zovan Bontempo.

 

[26] Nel 1616 Giovanni Pietro Ghitti di Bagnadore sposa Caterina Bontempi di Giovanni Battista.

 

[27] Vedi partita 115, nell’estimo 1641.

 

[28] Vedi partita 117 et 221, Ibi. Ha 67 anni nel 1641 e vive con il figli Bartolomeo (29 anni) sposato con un figlio, Antonio (5), e Pietro (26) e Stefano (18): anche in questo caso si ha la coabitazione di tre generazioni nella medesima casa, che è collocata all’interno del cortivo di Giovanni Bontempi.

 

[29] Vedi partita 121, Ibi. Ha 41 anni nel 1641, è sposato e ha un figlio, Tommaso di 6 anni.

 

[30] Il termine famiglie complesse indica l’insieme delle famiglie multiple ed estese insieme. Le famiglie multiple sono caratterizzate dalla presenza di più nuclei coniugali con o senza prole, mentre quelle estese presentano un nucleo coniugale con o senza prole ed uno o più parenti conviventi. Le famiglie dove è presente un solo nucleo coniugale con o senza figli è definito nucleare. Infine, è possibile individuare le famiglie dei solitari, formate da una sola persona e le famiglie senza struttura, dove non sono presenti coniugi e i membri sono legati da vincoli di parentela o semplice conoscenza. Inoltre, è possibile distinguere le famiglie patriarcali da quelle coniugali intime. Valutando le relazioni di autorità interne, indipendentemente dalla struttura, è possibile definire patriarcali quelle famiglie caratterizzate «da una rigida separazione dei ruoli fra i suoi membri, sulla base del sesso e dell’età, e da relazioni di autorità fra marito e moglie, genitori e figli, fortemente asimmetriche» [Barbagli, 1984]. Le famiglie coniugali intime, viceversa, sono contraddistinte da relazioni di autorità più simmetriche e da rapporti basati fondamentalmente sull’affettività. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna 1984, pp. 12-29; C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Bologna 2001, 16-29; V. Caporrella, La famiglia. Un’istituzione che cambia, Bologna 2008, pp. 1-10; P. Laslett, Famiglia e aggregato domestico, in M. Barbagli [a cura di], Famiglia e mutamento sociale, Bologna 1977, pp. 30-54; P. Laslett, Caratteristiche della famiglia occidentale, in M. Barbagli [a cura di], Famiglia e mutamento sociale, cit., 80-115.

 

[31] Mi limito a rilevare la necessità di uno spoglio sistematico dei registri parrocchiali. Si potrebbe, in questo modo, oltre che ricostruire la genealogia di tutte le famiglie locali, analizzare - dettagliatamente - le dinamiche demografiche e sociali che hanno governato il territorio dal XVII al XX secolo. Alcune direttrici di ricerca emergono già, mi pare, da questa indagine preliminare: l’occupazione di porzioni di territorio da parte di alcuni gruppi parentali; la dissoluzione della famiglia complessa e l’affermarsi di quella nucleare (con più nuclei economicamente autonomi ma conviventi); il matrimonio tra consanguinei (matrimoni doppi e/o incrociati) e i meccanismi dotali ed ereditari che ne sono la causa; lo spostamento della popolazione in funzione delle dinamiche economiche.

 

[32] A. Morandini, Marone sul lago d’Iseo… cit., p. 178.

 

[33] Con queste politiche famigliari dettate dal bisogno si vengono a creare - a prescindere dai rapporti di parentela in cui tutti sono «zii di/nipoti di/cugini di» - soprattutto legami di solidarietà e mutualità che diventano, nella generalizzata povertà, la condizione essenziale della sopravvivenza.

 

[34] Estimo 1785, c. 54r.

 

[35] Estimo 1785, c. 57r.

 

[36] A. Gnaga, Vocabolario topografico toponomastico della provincia di Brescia, Brescia 1937, p. 163.

 

[37] P. Biscottini, Il Barocco e gli inizi dell’Assolutismo, Milano 1980, p.499 e sgg.

 

[38] G. Tacchini, Strade maestre e vie val(l)eriane, in F. Troletti [a cura] La viabilità nella storia della Franciacorta e del Sebino, Marone (Bs) 2009, pp. 115-143.

 

[39] Partita 116 dell’estimo 1573, cc. 30v. e 31r e p. 74 (pdf): possiede una casa con orto, 4,20 piò di terra e paga un livello (contratto di enfiteusi) su un terreno che vale 44 lire.

 

[40] Il rapporto tra i due Agostino è dato proprio dal ricorrere del nome (è l’unico caso di Agostino tra i Bontempi).

 

[41] Vedi partita 116 nell’estimo 1641: è proprietario di una casetta e di 125 tavole di terreno (1¼ piò) parzialmente coltivato, di due casette (di cui una indivisa con Giovanni Gigola) e una porzione di stalla.

 

[42] Vedi partita 122, Ibi.

 

[43] Cento lire è, nell’estimo del 1641, il valore di un piò di terra pianeggiante arativo, vitato e olivato.

 

[44] Estimo 1785, c. 58r e c63r. Agostino è proprietario di «un corpo di case con diverse stanze terranee cilterate, e cupate con corte avanti» e un piccolo orto di 2 tavole che nel 1727 erano alla partita di Giovanni Bontempi q. Giovanni Maria «di Vincenza» e perciò ereditato, di un «cilteretto» (cantina o un magazzino) acquistato dai fratelli Bontempi q. Giovanni dei Michècc e di ½ piò di terra arativa, vitata e olivata. I suoi nipoti sono proprietari di 68 tavole di terra arativa, vitata e olivata a Collepiano.

 

[45] G. Gregorini, G. Tacchini, M. Pennacchio, R. Predali, L’economia bresciana di fronte all’Unità d’Italia. Il lanificio sebino, Marone (Bs) 2011.

 

[46] Allo stato attuale delle ricerche non è possibile stabilire quale fosse la sicura fonte del reddito delle numerose famiglie indigenti locali: senza dubbio vi erano attività non rilevate negli estimi (muratori, falegnami, carbonai, la filatura e la tessitura a domicilio, l’allevamento del bestiame, etc.), l’emigrazione e, infine, la solidarietà del clan; tutti elementi che al momento non sono quantificabili.

 

[47] Giacomo Bontempi [q. Pietro]: la paternità è data dalla comparazione delle due partite: vi è Piero q. Piero Bontempo titolare della partita 91; nella partita 108 Giacomo dichiara di avere una pezza di terra che confina con «Piero suo fr:ello». Stessi criteri sono applicati nell’individuare le parentele nel seguito del testo. Partita 108 dell’estimo 1573, c. 28v e p. 70 (pdf): possiede una casa con e 5 appezzamenti di terra - coltivati solo in parte (3/10) a cereali, vite e olivo - per un’estensione di 9½ piò di cui 7 a pascolo, ha una vacca da latte e paga livello sul capitale di 290 lire) ha un figlio negli estimi seicenteschi, Bartolomeo (nel 1637-1641, alla partita 128, compare un solo q. Giacomo, Bartolomeo che, tra le altre, possiede una «pezza di terra aradora, vidata, et parte lamitiva, guastiva in contrada de Molini da Zone, confina à mattina il dugale […] à sera ingresso […] di piò uno tavole vinti cinque»: il possedimento è notevolmente più grande rispetto a quello posseduto dal padre ma la posizione e i confini corrispondono e ci consentono di stabilire un altro elemento di continuità). Il fratello di Giacomo, Pietro q. Pietro - che il figlio si chiami come il padre si riscontra abbastanza frequentemente nei documenti consultati. Vedi partita 91 dell’estimo 1573, c. 23v e pp. 61-62 (pdf): possiede un cortivo - molto ampio - con orto e torchio stimato 200 lire e 7 appezzamenti di terra - in parte coltivati a cereali, vite e olivo - per 4½ piò e una. Paga un livello sul capitale di 290 lire - ha tre figli, Giovanni Pietro sposato con Domenica, Bartolomeo e Giovanni Antonio che compaiono negli estimi del 1637 e del 1641. La famiglia di Bartolomeo è composta, oltre che da Bartolomeo (che ha 72 anni nel ’37 e muore poco dopo), dai figli di questo, Giacomo, Giovanni - quest’ultimo sposato con un figlio, Giovanni Maria - e Francesco, anch’egli sposato con un figlio, Bartolomeo. Bartolomeo fu Giacomo Bontempi, sebbene defunto, ha ancora partita nel 1641. Vedi partita 128, nell’estimo 1641: risulta possedere un cortivo con un terreno arativo e vitato adiacente e 2 appezzamenti di terra; paga un censo sul capitale di 100 lire ai Signoroni al 3,75% e un livello perpetuo in natura alla parrocchiale di Marone sul capitale di 16 lire. Nel 1637, Bartolomeo possedeva le stesse pezze di terra, ma pagava 4 livelli sul capitali di 302 lire, di cui quello con i Signoroni era di 50 lire al 7% e gli altri con due Bono di Sale Marasino (100 lire ciascuno) e uno con la scuola del Santissimo Sacramento di Marone (52 lire) da cui si affranca prima del 1641. I figli Giovanni, Giacomo e Francesco hanno partita nel 1637 e nel 1641 (rispettivamente la 130, 129 e 131) e nel primo estimo sono detti figlio di, mentre nel secondo sono quondam (eccettuato Francesco): la stessa contiguità delle partite conferma i legami di parentela, oltre che territoriali. Giovanni q. Bartolomeo, il primogenito è sposato con Vincenza; ha un figlio, Giovanni Maria di 13 anni e nel 1633 viene battezzata la figlia Ludovica. Giacomo, di 35 anni non ha figli. Francesco, 32 anni, l’ultimogenito, è sposato con Lucia: nel 1633 battezza la figlia Caterina e nel 1636 ha Bartolomeo. Nel 1641 [Giovanni] Pietro Bontempi q. Pietro (che muore prima del 1637) è presente nell’estimo con la sua vedova, Domenica; fratello di Giovanni Pietro è Bartolomeo (sono figli del Pietro della partita 91 nel 1573). Giovanni Antonio (partita 112), di 66 anni, vive con la moglie e i figli Pietro (36 anni), Francesco (32), Battista, «soldato delle ordinanze», (29) e Giovanni Maria (18) e possiede un cortivo «di corpi duoi terranei con camare sopra, cuppate, con corte avanti» con un appezzamento di terra adiacente - coltivata a cereali e vite - per 50 tavole; paga censo sul capitale di 150 lire. Suo fratello Bartolomeo di 65 anni, vive da solo (partita 114), possiede una casa con portico e orto con un appezzamento di terra in contrada di Gariolo - coltivata a cereali e vite - per 60 tavole; paga censo sul capitale di 120 lire. Abitano tutti nel medesimo cortivo, con i cugini q. Bartolomeo.

 

[48] Le loro proprietà - nel 1785 - sono il cortivo avito e un appezzamento arativo e vitato di 1,40 piò in contrada di Grumello.

 

[49] Negli estimi cinquecenteschi e seicenteschi vi sono un Antonio di Maffeo della partita 66 nel 1573 e ricorre un Maffeo nella partita 119 del 1641; nell’elenco degli Antichi Originari compare il nipote, Giovanni Battista q. Maffeo. Il nome non è tra quelli più diffusi sul territorio per cui si può ritenere che i legami parentali tra i Maffeo che si trovano nei quattro documenti siano diretti. L’ipotesi è confermata dal possesso, nel 1785, da parte degli eredi di alcuni appezzamenti di terra che nel 1641 compaiono nella partita 119.

 

[50] Battista non è sposato nell’elaborato del Buscio ma, nel 1785, il figlio Giovanni Giacomo q. Giovanni Battista detto Bergamasco ha partita. I «beni di Gio: Giacomo Bontempi q. Gio Batta: Bergamasco» sono costituiti da «un corpo di case di fondi tre terranei cilterati, con camere sopra cupate et parte solerate, et fenile con lobbia, et corte avanti», un orto di quattro tavole contiguo alla casa, di 274 tavole di terreno arativo, vitato e olivato e di poco più di 3 piò a prato. Nella stessa partita Giacomo sostiene che gli eredi di Maffeo e di Pietro Bontempi q. Giuseppe sono suoi cugini, dandoci, in questo modo, un’ulteriore conferma dei dati dell’albero genealogico.

 

[51] Gli eredi di Pietro q. Giuseppe (i Michècc e i Gigola, mariti delle figlie) hanno partita: possiedono la casa, acquistata dal sacerdote Antonio Ghitti dei Bagnadore , possiedono, inoltre, 1/3 di un cortivo indiviso con i cugini q. Maffeo, 75 tavole di terreno coltivato e 2 piò di prato indivisi con i q. Maffeo.

 

[52] Maffeo si coniuga con Maria Mazzucchelli [† 1802] di Siviano, da cui ha 7 figli (5 maschi e 2 femmine). I suoi eredi sono titolari di partita nel 1785 e possiedono i 2/3 della casa in comproprietà con gli eredi di Pietro con un piccolo orto, 2 piò di terra «canevaliva» (vale solo 2 lire ed è quindi terreno impraticabile) e 2 piò di prato con una porzione di stalla e fienile.

 

[53] Antonio q. Giovanni è proprietario solamente di un cortivo e suo zio Giacomo q. Antonio vive in una stanza in un cortivo di parenti e possiede 45 tavole di terreno arativo e vitato. Gran parte dei beni del clan dei Michècc è nelle mani Giovanni Maria q. Antonio q. Battista q. Antonio [1734-1803]: egli possiede un cortivo che era di proprietà del defunto Giovanni Ghitti q. Battista, una casetta di due stanze terranee con una cameretta superiore e fienile che era del fu Benvenuto Gigola, una stanza che nel 1727 era di Giovanni Battista q. Giovanni Gigola dei Tezola, e prima ancora del q. Giacomo Bontempi q. Giacomo, marito della sorella Caterina [† 1803]; è proprietario, inoltre, di poco più di 3 piò di terreno coltivato.

 

[54] Bartolomeo (partita 8), Comino (Giacomo), detto Binello, (partita 67) e Giovanni Francesco detto Ceschi (partita 96).

 

[55] Domenico (partita 84), Faustino (partita 122), Francesco (partita 97), Giacomo de Zoan Longo (partita 54), Antonio di Bernardo (partita 25); a Marone - in contrada Piazze - vive Bernardino (partita 82: nel 1641 suo figlio Silvestro abita a Ponzano).

 

[56] Benvenuto e i fratelli q. Bartolomeo (partita 113, nel 1637 ha partita il padre), Antonio q. Giovanni Pietro q. Antonio (partita 125), Geronimo q. Giovanni q. Geronimo (partita 127), Cristoforo q. Giovanni (partita 134) e Matteo q. Paolo (partita 135).

 

[57] Benvenuto q. Giovanni (partita 3), i quattro fratelli q. Antonio, Giovanni Maria (partita 8), Carlo (partita 9), Geronimo (partita 16) e Bartolomeo (partita 17), Silvestro q. Bernardino (partita 15, 223 e 226), Maria, e Onorata sorelle q. Faustino (partita 18) e Barbara e Domenica sorelle q. Giovanni Giacomo (partita 20); possiede solo un appezzamento di terreno a Pregasso Giovanna vedova del q. Stefano Gigola (partita 201).

 

[58] Un Gigola, Matteo q. Cristoforo, abita a Ponzano; Andrea q. Giacomo dei Martinghecc vive ad Ariolo.

 

[59] Nella visite pastorale del Cardinale Borromeo è indicato il « Consorzio di Carità»: «Le elemosine di carità di questa località in Marone non siano distribuite al singolo scelto dal popolo con nessuna distinzione di persone, ma soltanto ai veri poveri. Chi si comporta diversamente, venga ipso facto privato di questa amministrazione, e inoltre sia tenuto a restituire il doppio a quella carità e a subire quella pena secondo il parere del reverendissimo ordinario, e parimenti gli sia anche interdetto l’ingresso in chiesa. Su questo tema si abbia la diligenza per delegare uomini probati, che, dal parroco o assieme a lui, indaghino con cura, e ricerchino diligentemente ad una ad una le necessità di mezzi, per dare in questo modo l’elemosina soltanto a coloro cui spetta, e non venga erogata ad altri, quantunque la loro necessità sembri richiederla. Se pertanto quei pii legati ordinano espressamente di dare indistintamente le elemosine alle singole famiglie o uomini o soltanto a coloro che sono della comunità, vengano essi entro un mese sottoposti al reverendissimo vescovo, affinché egli stesso stabilisca in forza del suo ufficio il da farsi per soddisfare la volontà esecutiva. E ogni anno si renda ragione al vicario foraneo o a un altro che il reverendissimo ordinario avesse costituito secondo il prescritto del concilio tridentino. Si tenga un libro di conti in cui si descriva soltanto ciò che riguarda questa posizione per poter più facilmente renderne ragione». Nell’estimo del 1573 è più volte nominata e in quello del 1641 è detta Carità di Marone. L’estimo 1641 elenca anche altre Scole (Confraternite), Chiese e Associazioni benefiche - conosciute come le Carità - del tutto esenti da gravami: la Scola del SS. Rosario e quella del SS. Sacramento e la Chiesa della B. Vergine della Rotta di Marone; la Scola del SS. Sacramento di Siviano, nonché la Carità e la Chiesa della Madonna di Vello; la Carità, le Discipline di San Rocco e di San Pietro, la Scola del SS. Sacramento di Sale Marasino; la Carità di Sulzano e quella di Vello; le parrocchie di Marone e di Zone e la Chiesa della B. Vergine Maria d’Artogne in Valcamonica. I beni di questi soggetti non sono sempre censiti, né stimati, in quanto godevano del privilegio della totale esenzione dai gravami fiscali. Quando compaiono proprietà e stima, le une e l’altra sono comunque di modesta entità. Ad esempio, la Carità di Marone possiede pezze di terra di varia natura per un’estensione di tavole 176, pari a lire 96; la Scola del SS. Rosario, pezze 31, per un valore di lire 40 e soldi 6, ma in più «scode censo da Battista et Vellio Abbati da Iseo sopra il capitale di lire quattrocento». Alla fine del XVIII secolo, dopo un sostanzioso lascito Zeni, è rinominata in Carità Nuova.

 

[60] G. Rossi, I fedecommessi nella dottrina e nella prassi giuridica di jus commune tra XVI e XVII secolo, in S. Cavaciocchi [a cura di], La famiglia nell’economia europea. Secc. XII-XVIII, Firenze 2009, p. 184. «Pur trattandosi di un istituto giuridico di ascendenza romana, del cui impiego v'è ampia traccia anche nel Medioevo e segnatamente nel Quattrocento, è durante l'età moderna, tra Cinquecento e Settecento, che in tutta Europa il fedecommesso conosce la sua stagione aurea, poiché viene individuato come il mezzo più efficace per far sì che la base patrimoniale delle famiglie - sulla quale si fonda il loro status sociale e l'importanza politica, oltre che la forza economica (con riferimento agli strati superiori delle società, cioè al patriziato urbano, sovente da identificarsi con la grande borghesia imprenditoriale in via di nobilitazione, e soprattutto alla nobiltà terriera, perlopiù di matrice feudale) - si mantenga intatta, mediante il divieto di alienazione dei beni e l'obbligo di trasmetterli al successivo istituito, previsti già nel testamento di colui che delinea in tal modo la strategia successoria di lungo periodo del casato. L'efficacia di tale ritrovato è particolarmente alta, specie se sommata ad altri istituti, quali il maggiorascato e la primogenitura, presenti soprattutto nella prassi della penisola iberica ed in Francia, al servizio di una mentalità gentilizia che privilegia le fortune e la sopravvivenza del clan, della familia in senso ampio, rispetto agli interessi del singolo, in apparente controtendenza rispetto alla contemporanea emersione, in età moderna, dell'individualismo proprietario e, più in generale, di una mentalità fondata sulla centralità dell'individuo e sulla estrinsecazione piena del­la sua soggettività (anche sotto il profilo economico e giuridico).

 

[61] È indicativo dello stato di povertà degli abitanti di Collepiano il fatto che dal XVI alla metà del XIX secolo non vi siano sacerdoti. Vedi M. Pennacchio, Vicende di una parrocchia. La società religiosa a Sale Marasino in epoca moderna (sec. XVII-XVIII), in «Vieni a casa», 8° Quaderno, Brescia 2001.

 

[62] G. Abbattista, Storia Moderna, Roma 1998, p. 388: «Le due prime e più immediate risposte alla carenza relativa di terra sono il matrimonio ritardato e l’endogamia. Più che un dato strutturale del matrimonio nord-europeo, l’età avanzata degli sposi sembre­rebbe, almeno per il confronto con i dati medievali conosciuti, una tendenza pro­pria dell’età moderna: a Firenze, nel 1427, l’età media alle nozze delle donne è di 17,6 anni, e di 18,4 nel suo contado, e un quadro simile emerge anche per altre lo­calità toscane; nel villaggio di Montaillou in Francia, a cavallo tra Duecento e Trecento, le ragazze si sposano a 17-18 anni, nella Valle del Rodano nel Quattro­cento a 20-21 anni ecc. (Barbagli 1996). Per quanto concerne l’endogamia, quella di parentela, proscritta dal diritto canonico, è di difficile accertamento, posto che le registrazioni ecclesiastiche lasciano traccia soltanto dei matrimoni autorizzati. Sappiamo solo, abbastanza, di un’antica e radicata resistenza contadina alle inter­dizioni del matrimonio «ravvicinato» imposte dalla Chiesa romana e ribadite dal­le Chiese protestanti, una resistenza ogni volta affiorante nelle correnti ereticali (catari, valdesi, lollardi ecc.). In forza di simile opposizione si sarebbe anzi costi­tuita una sorta di «economia nascosta della parentela» che convivrebbe a lato di quella palese o ufficiale (Goody). L’endogamia di parentela ha comunque modo di svilupparsi senza frizioni con l’autorità ecclesiastica nei «luoghi stretti», e cioè in quei villaggi poco popolosi nei quali senza facilitazioni nelle dispense sarebbe praticamente impossibile spo­sarsi (e tali facilitazioni sono appunto previste a partire dal Concilio di Trento). Dove poi alla «strettezza» del luogo si unisce l’interesse a conservare la circola­zione della terra all’intemo dei «vicini» o dei comunisti (di quelli cioè che hanno accesso alle terre comuni indivise), allora 1’endogamia diventa un fatto pressoché normale, e come tale tollerato: come nel caso del piccolo villaggio di Pinon, nel­l’Alvernia, dove a fine Settecento gli abitanti si sposano sempre tra loro. Del re­sto, andando indietro nel tempo, vicinato e parentela sono realtà che nascono in­trecciate ed è forse questo che spiega perché nella società d’antico regime l’ideale di buon matrimonio è quello che i contadini delle montagne di Como ripetono spesso nelle richieste di dispensa, «per cui si fa questo contratto come parenti pri­ma, e poi amici, et vicini di casa» (Merzario)».

 

[63] Vedi, anche per la bibliografia, L. Garlati, La famiglia tra passato e presente, in S. Patti e M. G. Cubeddu, Diritto della famiglia, Milano 2011, on-line all’indirizzo http://www.storiadeldiritto.org/uploads/5/9/4/8/5948821/garlati_2011_famiglia.pdf. Gli Statuti di Brescia - cui anche i contratti dotali dell’archivio parrocchiale fanno riferimento - hanno numerosi articoli riguardanti la dote: la loro traduzione in italiano è in googlebook: L. Bigoni, Statuti Civili della Magnifica Città di Brescia volgarizzati, Brescia MDCCLX, nella Stamperia di Pietro Vescovi.

 

[64] Nei contratti dotali sono numerosi i richiami alle normative contenute negli Statuti Bresciani, che sono, nella versione in volgare (L. Bigoni, Statuti civili della magnifica città di Brescia volgarizzati, Brescia nella stamperia di Pietro Vescovi 1776) e in quella in latino, incompleta (F. Odorici, Storie bresciane dai primi tempi sino all’età nostra 7, Brescia 1858), consultabili on-line in googlebook. Nella versione volgare riguardano in vario modo la dote i paragrafi 147, 160, 161, 162, 163, 164 e da 181 a 200.

 

[65] Antonio di Bernardo Gigola è titolare della partita 25 dell’estimo del 1573 in cui ha beni per 537 lire (la dote ne è circa il 25%).

 

[66]                    La questione è, evidentemente, tutta ancora da approfondire, anche perché solleva problemi che esulano dalle mie scarse competenze. Non ho rinvenuto alcun contratto tra gli “homini di Marone” e i pittori in questione (che potrebbe indicare più precisamente i gusti della popolazione locale). Il caso della pala di Ottavio Amigoni - la Madonna col Bambino e i santi Rocco e Sebastiano - mi pare, con la sua vista realistica di Marone (tutti gli edifici in primo piano corrispondono alle descrizioni contenute negli estimi), dimostri una precisa scelta della committenza locale, che, non accontentandosi di viste stereotipe, richiede espressamente il ritratto di Marone e mostri una altrettanto decisa volontà, non solo di rappresentazione, ma di auto-rappresentazione. All’artista non è richiesta una pala generica, bensì quella che la Gnaccolini definisce la «Madonna di Marone» (2001, ed. a cura della parrocchia di Marone). In misura meno evidente Domenico Voltolini, nella pala di Vello, propone la vista delle sponde del lago poste tra il Trentapassi e Marone.