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200 cartoline ritrovate in un vecchio canterano

Roberto Predali

Queste immagini provengono da una rara collezione di 200 cartoline stampate con molta probabilità tra il 1920 ed il 1930.

Gli originali, sebbene inevitabilmente segnati dal tempo, sono in ottime condizioni, stampati con inchiostro verde e con metodo calcografico, procedimento di riproduzione a stampa mediante matrici incise in incavo su rame (entrambi molto usati a quei tempi per simili stampe): le cartoline sono per questo di elevata qualità, soprattutto nei dettagli e nei toni.
Vista la qualità delle cartoline, gli originali fotografici dovevano essere eccezionali, tenendo soprattutto conto del clima keniano e del fatto che negativi e positivi dovevano essere sviluppati e stampati in loco, spesso in condizioni veramente disagevoli.
Elevata era anche la qualità tecnica ed il gusto del fotografo, ma ciò non deve stupire, se si pensa che, fin da dopo il 1850, i missionari usavano la fotografia per documentare non solo il loro operato ma anche gli usi ed i costumi dei popoli da evangelizzare.
La fotografia, come qualunque altro documento, non va solo guardato, ma letto, analizzato e studiato proprio come si fa con un giornale, un libro, un trattato di antropologia.

Da un punto strettamente fotografico ci troviamo appunto di fronte ad un eccezionale documento etnografico: il percorso della mostra non mostra esclusivamente l'opera dei missionari e delle missionarie della Consolata, il loro cammino di costruttori di vita cristiana e di opere materiali, ma anche gli usi ed i costumi dell'etnia Ghekoio - come nella grafia usata nelle cartoline, o nella grafia attuale Kikuyu - e, in parte, anche la loro cultura.

Certamente alcune didascalie possono sembrare retoriche addirittura ridicole, ma l'album delle 200 cartoline è un reportage didascalico, rivolto, proprio perché stampato come cartolina postale, a un pubblico eterogeneo e non sempre necessariamente acculturato. Ricordiamo ancora che le immagini furono realizzate in uno dei periodi più bui della storia dell'Europa, in cui uno degli elementi caratterizzanti era il razzismo ed il rifiuto di ogni cultura diversa da quella Occidentale.

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Una preziosa testimonianza di carattere etnografico

Marco Aime

Le fotografie raccolte da Roberto Predali sono una preziosa testimonianza di carattere etnografico. Sebbene non ci siano date esplicite, tutto lascia pensare che siano state scattate nei primi decenni del ‘900, nell’ambito di alcune attività missionarie tra Kenya e Uganda. Sono preziose perché al primo sguardo ci mostrano i volti, gli abiti, le attività degli abitanti dei villaggi che i missionari incontravano regolarmente. Non dimentichiamo, che fino alla fine dell’800 erano pochissime le testimonianze “visive” sull’Africa. La fotografia era cosa rara e non certo semplice da praticare in quei luoghi. Abbiamo così la possibilità di vedere un’Africa come la videro i primi missionari e poco dopo i primi colonizzatori.

Molti dei ritratti sono in posa, in linea con il pensiero del tempo, in cui si cercava di classificare le popolazioni e i loro “usi e costumi”. Una sorta di schedatura per scopi scientifici. Ci sono poi invece scene di vita, con i soggetti in azione, mentre lavorano, chiacchierano, viaggiano. Le foto e le didascalie offrono degli importanti riferimenti etnografici sulla vita di quei villaggi in quell’epoca.

Se però osserviamo con un po’ più di attenzione queste immagini, scopriamo che ci raccontano degli africani tanto quanto raccontano di noi. Noi intesi come “bianchi”, europei, presunti civilizzati. Se da un lato vediamo una natura incontaminata, peraltro descritta nelle didascalie con toni bucolici, da paradiso ritrovato, dall’altro vediamo come questa natura può essere dominata dalla forza del bianco: la ferrovia, il ponte, la sega a nastro, i trattori, anzi le “trattrici”… Il cacciatore che posa con in mano il fucile ancora fumante di fronte al cadavere dell’antilope, mentre i due indigeni reggono le loro piccole lance, è un’altra dimostrazione del potere del colono.

Le foto sono state scattate nell’ambito di un’attività missionaria, non stupisce quindi che vengano posti in luce determinati valori come la maternità, la famiglia. Così come non compaiono mai immagini di nudo, anche parziale, che invece vediamo ancora oggi in certe parti d’Africa, dove il concetto di pudore è tradizionalmente diverso da quello del mondo cristiano. Emerge invece l’impegno di scolarizzare i piccoli locali, che vediamo ordinatamente seduti nei banchi di scuola, seguiti dalle suore.

La fotografia non è mai neutrale, sebbene in molti lo pensino. È un linguaggio con cui raccontare la realtà o meglio, la realtà come la percepisce il fotografo e queste immagini di alto valore storico ed etnografico, sono il racconto dello spirito del tempo. Di quell’anelito di salvezza che spingeva sinceramente i missionari ad affrontare enormi difficoltà, nella speranza di “civilizzare” e convertire gli indigeni. Questo ottimismo, questa fede in quella missione traspare pienamente da queste immagini.
Un tassello in più nella conoscenza del passato dell’Africa, ma anche e soprattutto del nostro.

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Chi sono i Kikuyu

I Kikuyu sono il più numeroso gruppo etnico del Kenya. Essi vivono nella provincia centrale del Kenya (Altipiani centrali) e considerano loro la terra intorno alla montagna sacra (Monte Kenya o Kirinyaga, il monte splendente).
Questa è una regione molto fertile, ricca d'acqua, intensamente coltivata e coperta da fitte foreste: non sorprende quindi che i coloni bianchi si siano interessati alla zona ed abbiano iniziato ad arrivare sempre più numerosi dopo il completamento della ferrovia Mombasa-Uganda.
Qui essi potevano coltivare per tutto l'arco dell'anno i propri prodotti, in particolare quelli più richiesti in Europa. D'altro canto non sorprende neppure che i Kikuyu, privati delle loro terre migliori, si siano sollevati contro i bianchi in quella che fu la rivolta dei Mau Mau.

Con l'indipendenza del paese gran parte della terra fu divisa tra i Kikuyu. Data l'attuale crescita della popolazione, molti sono i problemi che affliggono l'ambiente. Uno dei più gravi è l'erosione del suolo e inoltre molti appezzamenti sono troppo piccoli per fornire sostentamento per una famiglia. È vero che esistono ancora ampie porzioni di foresta, ma il bisogno di materiale da costruzione e di legna da ardere (il più diffuso combustibile per cucinare e scaldarsi) pone un limite all'espansione della terra coltivabile.
I Kikuyu sono Bantu cui appartengono altri gruppi: Meru, Embu, Mbere, Tharaka, Kamba e tanti altri.

Romantica è la leggenda sul fondatore dell'etnia dei Kikuyu, il mitico Gikuyu.
La storia narra che il loro dio Ngai, portò Gikuyu sulla cima della montagna Kirinyaga e lì, gli ordinò di costruire la sua casa vicino ad un gruppo di fichi (mikyuy) nel centro del paese. Gli diede anche una moglie, Mumbi e insieme ebbero nove figlie, dalle quali discesero i principali clan Kikuyu: Achera, Agachiku, Airimu, Ambui, · Angare, Anjiru, Angui, Aithaga e Aitherandu.

I Kikuyu sopravvivono soprattutto grazie all'agricoltura. Coltivano banane, canna da zucchero, gigli, tuberi, mais, miglio, fagioli e diverse varietà di verdure.
Allevano anche capre, pecore e bovini. Il bestiame, inizialmente simbolo di ricchezza, fornisce anche benefici pratici poiché la pelle è utilizzata per fare coperte, sandali e cinghie. Pecore e capre erano e sono ancora usate per eseguire sacrifici religiosi e cerimonie di purificazioni.

Nella cultura Kikuyu i ragazzi e le ragazze sono cresciuti in maniera molto differente, le ragazze sono abituate al lavoro nei campi, mentre i ragazzi all'allevamento degli animali.
Le ragazze hanno anche la responsabilità di curare i fratelli più piccoli e di aiutare la madre nei lavori di casa. Nella cultura Kikuyu l'identità della famiglia è portata avanti dando al primo figlio il nome del nonno paterno, e al secondo il nome del nonno materno.
Lo stesso vale per le ragazze: la prima è chiamata con il nome della nonna paterna, la seconda con quello della nonna materna. Gli altri figli sono chiamati con i nomi dei fratelli e delle sorelle dei nonni partendo dal più vecchio per arrivare al più giovane. I Kikuyu credono che in questo modo lo spirito dei nonni possa entrare nell'anima dei nipoti ed aiutarli nella vita.
[r.p.]

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A proposito di gruppi etnici bantu del Kenya

Elio Revera
www.artidellemaninere.com

Come ha sottolineato Roberto Predali sono numerosi i gruppi etnici bantu del Kenya: Kikuyu, Meru, Embu, Mbere, Tharaka, Kamba e tanti altri.
Spesso libri ed oggetti significativi ci interrogano, anche se abbiamo l’impressione di essere noi a chiedere conto ad essi…
Quando mi sono imbattuto in questa piccola scultura di venti centimetri sono rimasto colpito dall’intensa espressività del volto. Questa scultura appartiene ad un’etnia keniota prima citata: i Kamba.

Il particolare taglio degli occhi profondi, le labbra socchiuse, il naso camuso, l'ampia fronte regolare, le grandi orecchie ed il piccolo chignon mi sono apparsi degni di nota e mi hanno spinto ad una seria indagine.
L’attribuzione all’etnia di appartenenza, che la collocava in Tanzania, non mi convinceva affatto anche se il fatto che fosse stato raccolto da Peter Loebarth, un grande etnologo tedesco, deponeva a favore della sua indubbia qualità.
L’insieme dell'opera, la sua atmosfera, mi han riportato ad un immaginario “nilota” ed infatti la scultura non è affatto immemore dell’espressività delle grandi produzioni dell’antico Egitto.
La postura poi, reclinata in avanti con grande equilibrio formale e sapienza scultorea, le mani poste sul piccolo tamburo a due membrane, ben ancorato da cinghie passanti intorno alla vita ed al collo, le gambe leggermente flesse su due ampi piedi che ne garantiscono una salda stabilità, sebbene il piede destro sia monco del metatarso, sono elementi di indubbia raffinatezza e valore compositivo.
Non ultima, indubbiamente affascinante, la scura patina del legno, profondissima e di consistente persistenza, a tratti lucida nelle parti aggettanti a causa del prolungato maneggiamento, come evidenzia la consunzione del legno del dorso delle mani.

Questa opera, come tantissime altre create dalla cultura africana, è la testimonianza delle capacità artistiche ed espressive di quei popoli.
Non sono oggetti che in origine sono destinati ad un puro godimento estetico, come accade nel caso delle opere create dai nostri artisti occidentali; la loro funzione è legata ad una ritualità profonda e pervasiva. Sono opere anonime perché quel che significava per queste società era l’appartenenza alla propria etnia, che privilegiava la collettività e tutto quanto ad essa connesso, piuttosto che l’individualità del singolo.

Nondimeno, come nel caso della piccola figura di suonatore dell’artista Kamba, il livello creativo e la capacità scultorea non hanno nulla da invidiare ad opere realizzate in occidente ed è la testimonianza di un antico rito legato presumibilmente alla caccia ed alla festa.

 

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Suor Irene Stefani, Nyaatha, beata

don Gianni Cristini

(Suor Irene Stefani ha parenti a Marone in una famiglia Guerini che, gelosamente, conserva questa collezione di cartoline).

Sicut transit gloria mundi: così svanisce la gloria del mondo!
È l'ammonimento d'obbligo che il Decano del Sacro Collegio dei Cardinali rivolge al neo eletto Papa.
Constatazione ovvia come la gloria anche di grandi personalità svanisce nel nulla. E allora, quale gloria resta anche dopo la nostra dipartita? Quella delle virtù morali! È una riflessione spontanea che sorge in noi ogni quale volta visitiamo il campo santo dei nostri paesi.

Ma tale riflessione l'ho percepita in modo evidente, quando nell'agosto del 1972, ebbi la fortuna di visitare il cimitero di Nyeri in Kenya, dove restano ancora le insegne di due persone italiane: una di lignaggio altolocato, di schiatta nobile, regale: il duca Amedeo di Aosta; l'altra di un ignoto paesello della Val Sabbia (Anfo), figlia di una modesta famiglia che ben poco contava nell'opinione pubblica: suor Irene Stefani. Due persone che rendono onore all'Italia!
Sia dell'uno che dell'altra avevo letto qualche notizia sui libri, ma non mi avevano colpito più di tanto.
Tuttavia, la coincidenza che fossero ambedue sepolti nello stesso cimitero mi fece riflettere non poco: forse per una certa somiglianza nella loro vita? Sì: il nesso che li univa era l'eroismo!
Dalla storia risulta che il primo era un grande stratega dell'Esercito Italiano, in Africa. Nonostante le enormi difficoltà e incomprensioni, si mantenne sempre all'altezza del suo dovere per fedeltà, dignità, umanità ed intelligenza tanto da essere stimato dai nostri soldati e dallo stesso esercito inglese per cui potrebbe essere considerato un emblema per i veri patrioti.

Ma per chi tende alla santità, preferisce seguire l'ideale di suor Irene, perché, come dice uno scrittore francese: «i capolavori veramente eterni sono le anime dei santi!».
Perciò è bene presentare la figura di questa nuova Beata.
Suor Irene Stefani nasce ad Anfo il 22 agosto 1891 ed è battezzata con il nome di Mercede. In Kenya entrerà nella vita eterna il 26 ottobre 1930, a 39 anni di vita.

Quali sono le doti principali che spiccano nella persona della nuova Beata?

  • Obbedienza assoluta. Appena fu pronta, i Superiori la inviarono in Kenya, nel campo-ospedale di Voi dove trovò una situazione difficile. "Ottanta persone scheletriche giacciono alla rinfusa sulle brande, sulle stuoie o per terra, in mezzo a un gemere e un farneticare sconcertante in lingue incomprensibili, in un tanfo insopportabile"! Scoppiata la guerra in Tanzania negli anni 1917-18, la inviano là per curare i feriti e assistere i moribondi, confortando gli uni e gli altri. Terminata la guerra, ritorna di nuovo in Kenya dove rimarrà fino alla morte. Qui si perfeziona nella lingua swahili, per poter insegnare agli scolari a leggere e a scrivere e soprattutto per istruirli nel catechismo.
  • Umiltà: si riteneva inferiore a tutte le consorelle, per cui si sentiva in dovere di servirle, con la massima semplicità. Pure si metteva a disposizione di tanti bambini e poveri bisognosi di tutto. Così il suo buon esempio si imponeva a tutti, che rimanevano meravigliati di come potesse abbassarsi così tanto, da immedesimarsi con i malati di peste e con i dementi: desiderava che dalle loro labbra sbocciasse un sorriso di gioia, nonostante la malattia.
  • La premura di curare i malati perché vedeva in loro l'immagine del Cristo sofferente. Spesso piangeva di commozione, dicendo: "Soffrono, hanno bisogno di tante cose e noi possiamo fare così poco per loro. Salviamo almeno le loro anime, affinché tanto soffrire abbia a meritare loro il Paradiso".
  • Ma soprattutto, quanto viaggiare, a piedi attraverso i sentieri fangosi della foresta oppure nella brughiera senza temere pericoli, in cerca di bambini abbandonati o bisognosi, tanto che i suoi scarponi da montagna hanno costituito la "sua gloria".
  • La pazienza con tutti, anche con i prepotenti e quelli che la disprezzavano; però rimanevano stupiti di come potesse svolgere tanto lavoro una donna così esile e malaticcia!

Ma noi conosciamo il segreto della sua dedizione fino all'eroismo: la preghiera e l'Eucaristia. Nella misura in cui si sentiva debole, senza coraggio e voglia, supplica Gesù di aiutarla a fare tutto per Lui!
Per la sua dolcezza, per l'apostolato disinteressato, specie per la sua commiserazione verso i poveri, gli ammalati i moribondi, soprattutto i peccatori, si meritò il titolo di Nyaatha; cioè: madre misericordiosa.

200 cartoline ritrovate in un vecchio canterano

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