Zanotti Giosuè Nèdre

Zanotti Giosuè dei Nèdre è contadino.

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Descrizione

Zanotti Giosuè Nèdre

Zanotti Giosuè dei Nèdre [20/01/1899-15/04/1974], contadino, è sposato con Guerini Rosa dei Carai.
È la coppia più prolifica di Marone. Rosa Guerini, infatti, ebbe 16 figli (di cui 8 morirono in età perinatale) e morì nel 1942, poco dopo il parto della figlia Angelina Rosa, per emorragia post-partum.
I figli della coppia sono: Andrea, Basilio (sacerdote), Eugenio, Edoardo, Anna, Maria, Luigina e Rosa.

La famiglia di Zanotti Giosuè Nèdre e Guerini Rosa Carai

La disgraziata che sono io

(Il primo capitolo del libro di Mauro Pennacchio, Sono nata il primo maggio, Iseo 2013, biografia di Anna Anèta Zanotti).

Anna è nata il primo maggio del Millenovecentotrentuno, festa del lavoro. E il lavoro non le è mai mancato, un po' meno la festa. È nata in un paese del lago d'Iseo, Marone, quasi di fronte alla più grande isola dei laghi d'Europa, che se ci passate vicino appare come un monte ficcato in mezzo ad un lago che pare sproporzionato al suo confronto, troppo piccolo per un masso del genere. Circa vent'anni prima della sua venuta al mondo la ferrovia aveva collegato quelle plaghe alla città e, su a nord, con l'estremo vertice della valle dell'Oglio, Edolo, capolinea della Valle Camonica.

La scrittrice francese George Sand, una donna il cui nome era Amandine Lucie Aurore Dupin, lo aveva descritto, questo lago, nel suo Lucrezia Floriani, come potete trovare in una miriade di dépliant turistici. Secondo lei il Sebino «non ha nulla di grandioso nell'aspetto e i suoi dintorni sono dolci e freschi come un'egloga di Virgilio. Tra le montagne che formano il suo orizzonte e le crespe molli e lente, che la brezza traccia sulle rive, c'è un'area di prati incantevoli, letteralmente smaltati dai più bei fiori campestri che produce la Lombardia. Tappeti di zafferano di un rosa puro ricoprono le rive, dove la burrasca non spinge mai rovinosamente le onde furiose. Leggere imbarcazioni rustiche scivolano sulle placide onde, sulle quali si sfogliano i fiori del pesco e del mandorlo». George Sand era stata per un breve periodo su queste sponde alla metà degli anni trenta dell'Ottocento, come non mancano di riferire le guide turistiche, assieme al suo amante, Fryderyk Chopin.

Alla nascita di Anna era passato quasi un secolo da quando i primi battelli a vapore avevano fatto mostra di sé su quelle acque. Attorno agli stessi anni era stata costruita la strada costiera che aveva sostituito la via medievale per la Valle Camonica. La ferrovia, in particolare, aveva da poco trascinato queste plaghe entro i recinti della modernità. Già durante la dominazione veneta, assieme a Sale Marasino, il comune confinante, Marone costituiva il cosiddetto lanificio sebino, che sopravvivrà fino agli anni settanta del secolo scorso. Si trattava di una presenza che non poteva in alcun modo sfuggire anche al viaggiatore più distratto. Giuseppe Zanardelli, che non era per nulla distratto, alla metà dell'Ottocento ci racconta che ai primi d'ottobre, si vedevano

«biancheggiare gli armenti sulle verdi rive del Sebino e tondere l'acciaro i crespi velli [e] le bianche e leggere piume sparse ad asciugare sulle ghiaie del lago e del vicino torrente».

È un mondo, quello di Anna, che si è districato solo in parte da un passato oscuro, in cui si colgono gli echi dell'antico regime, è un'epoca in cui la gente non ha tempo di godersi l'incanto descritto da George Sand.

Una guida turistica pubblicata nel 1910, una delle prime ad occuparsi delle terre di questo lago, intitolata sobriamente Lago d'Iseo, descriveva, in modo un poco enfatico ben altro quadro, lontano le mille miglia dall'idillio. L'autore si occupava delle filande, dove «il fetore delle decomposizioni mozza il fiato, dà un senso di nausea, di prostrazione»; ma le operaie «pur qui cantano ... cantano a perdifiato, come capinere imprigionate». Seguiva la descrizione di due lavoratrici. «Ho visto uscire da la filanda una vecchia, una maestra e una bambina: la vecchia non aveva che trent'anni e la bambina non aveva un'età: non era che una magrezza sparuta, due occhi cisposi e grigi sotto una scarsa capellatura biondiccia. L'alfa e l'omega di uno stesso destino, un destino spietatamente uguale».

Anna è nata il primo maggio del trentuno. Settima di una cucciolata che alla fine, tra vivi e morti arriverà a sedici. Dio alla fine se ne sarebbe presi otto. Lei ha ereditato i nomi delle nonne: Anna e Maria. Le spettavano. Era la prima femmina sopravvissuta della covata. Le spettava anche il dovere di allevare i fratelli, a dieci anni, quando Rosa, la mamma, se ne andò per sempre. Tredici parti, tre di questi gemellari, e una stanchezza infinita l'avevano vinta. Il suo cuore malato non aveva retto. L'inizio della fine in una mattina di dicembre del quarantadue. Nella foschia dei ricordi quelle immagini sono nitide e lancinanti.  Il ricordo fa l'effetto di mille piccoli aghi negli occhi. Quella mattina s'è incastonata nell'anima. La mamma le aveva affidato la sedicesima nata. Dio quant'era piccolina!
- Portala di sotto, ma stai attenta.
Di sotto era lo stanzone della cucina. Non c'era culla o qualcosa del genere. Neanche a parlarne. I neonati erano sempre stati appoggiati sulle sedie, o accomodati sul pavimento, a volte collocati nei cassetti tenuti aperti quali culle improvvisate. Quella volta Anna la depone sul tavolo. Non è l'ora del mangiare. Sente il rumore dei passi. Sono passi strascicati, spesso interrotti. La mamma s'è alzata, scende lungo le scale esterne, le uniche che uniscono il sopra e il sotto. La vede lasciarsi cadere su una sedia, non parla. È bianca come un lenzuolo. Si affloscia su se stessa, lascia cadere le braccia e cade a terra. La bambina è disperata, non sa che fare. Qualcuno deve aiutarla. Lo zio sta raccogliendo le olive, lascia tutto e corre a vedere che è successo
Corri a chiamare il dottore

Il prete si trova lì vicino, ci andrà qualcun altro. Un paio di chilometri piangendo, correndo lungo la strada, una lunga scalinata che porta dalla collina di Pregasso ad Ariolo, poi oltre il ponte sull'Opolo giù verso il paese quasi in linea retta. Sono le due del pomeriggio, gli operai stanno uscendo dalla Franchi, il fabbricane che dagli anni venti ha iniziato a scavare la collina, come si tagliano le fette di una torta, per estrarre la dolomia che poi è lavorata nei suoi impianti. Uno sbrego che si vede quando si passa per Marane diretti in valle. I grandi blocchi refrattari che se ne ricavano rivestono internamente i forni elettrici ad arco per la fusione dei metalli. Molti conoscono la bambina.
Cosa c'è Anì? Chi è che ti ha fatto piangere?
Dal dottore finalmente. La vede disperata. La mamma sta male. Il dottore salì a Pregasso con la bambina. Questa volta il viaggio è in automobile, la prima volta che la bambina faceva un viaggio con la macchina. Il medico visitò Rosa, non poteva farci niente e non lasciò speranze.

Ci vorranno ancora una notte e un giorno prima che Rosa se ne vada. Alla fine la stanchezza infinita se l'è portata via. Accade non più tardi di un quarto d'ora da che Basilio, quello che studia da prete, ha parlato con la madre. Rosa aveva chiesto di vederlo prima di andarsene. Il ragazzo era stato fatto tornare a casa al più presto. Non c'era tempo da perdere. Cosa si sono detti? Anna se lo è chiesto. Basilio si è sempre tenuto dentro quel momento. Non ha mai voluto riferire le parole della madre.

Desolazione. Ad Anna viene subito in mente questa parola quando il ricordo la prende. Desolazione della natura invernale, del grigio del lago, delle montagne che orlano il catino di quelle acque che in giorni come quello sembrano stagnanti, come in un crogiolo di piombo. Chi avesse osservato la scena dal lago avrebbe visto una striscia di grigio più carico. Tutto il paese ad accompagnare la mamma. Tutti conoscevano la famiglia, loro erano benvoluti da tutto il paese. Il ricordo riconsegna delle immagini. La mamma portata a spalle dagli uomini di famiglia. Le parole di cordoglio. I gesti e le carezze, tentativi di consolazione. La memoria sfuma sulla chiesa piena di gente, e richiama l'oppressione di un boccone che ti si è piantato sullo stomaco e che se ci pensi lo trovi sempre lì.

Un bambino come Anna, nelle sue condizioni e in quei tempi, era a contatto fisico con la morte. Qualora se ne fosse dimenticato, c'era chi provvedeva a ricordarglielo. Leggete questa poesiola. Anna la ricorda come la maestra gliel'ha fatta imparare a memoria in uno dei pochi anni in cui ha frequentato la scuola.

Che fai fanciulla su quella porta Guardando lontano per quella via? Oh se sapessi quando fu morta L'han portata di là, la mamma mia Di là m'han detto che deve ritornare
Ora son qua da quattro anni ad aspettare Povera fanciulla tu non sai che i morti
Al mondo non tornano mai Tornano al vaso I fiorellini miei Tornan le stelle, tornerà anche lei.

Era un tempo in cui la morte era presenza familiare, non la si esorcizzava come vorremmo fare oggi. Potremmo dire che la si frequentava. Non era ancora diventata sconveniente, tanto da evitarne la visione e l'ostentazione come fosse uno spettacolo sconveniente mostrato ai bambini. A chi di noi non apparirebbe oscena l'ostentazione di un segno di lutto al braccio di un bambino, come accadeva ancora negli anni Cinquanta?

Anna, peraltro, in quei suoi primi anni ci si era abituata, alla morte. Quella dei suoi fratelli in particolare. Le capita a volte di ricordare quelle sette piccole tombe allineate nel cimitero di Marone. Sette solamente. Uno dei fratelli, l'ottavo, lo hanno dovuto lasciare a Iseo. A lei l'hanno raccontato, non lo ricorda personalmente. Era molto piccola, avrà avuto due, tre anni.

Battista era stato portato all'ospedale di Iseo. Battista aveva undici anni. Si era ferito ad un ginocchio, non ricorda se con un sasso, una lama, un chiodo o cos'altro. Forse un gioco maldestro. Capita spesso ai ragazzi che non vedono il pericolo. In ogni caso una sciocchezza, si era pensato. Invece la ferita aveva fatto infezione, il ginocchio si era gonfiato e la gamba aveva preso il colore di una prugna matura, e poi quella febbre alta che non voleva calare. Il dottore aveva deciso, lo si portasse con urgenza a Iseo, all'ospedale, quell'edificio che era stato molti anni prima un convento francescano. Troppo tardi. I medici ci avevano provato. Le cure non erano bastate, Battista non ce l'aveva fatta. Il papà e la mamma se lo volevano portare a Marone; ma come fare? Si erano informati, avevano chiesto quanto sarebbe costato. Troppo. Non ce la facevano. Lo avevano lasciato a Iseo, in quel cimitero non lontano dall'ospedale. Si poteva andarlo a trovare con il treno. Non era lontano, solo dodici chilometri.

Anche l'ultima arrivata, Rosa, faceva temere. Pesava poco più di un chilo e mezzo. Più o meno un gattino striminzito. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua sopravvivenza, tanto che si considerava l'eventualità di aggiungere quel fagottino nella cassa della mamma, se non ce l'avesse fatta. La zia lo aveva detto senza giri di parole.

Anna ha difficoltà a ricordare in ordine la sequela dei fratelli - Battista era il primogenito, classe millenovecento ventitré, lo aveva seguito Andrea nel ventisei, poi Basilio che era nato nel ventotto e che si è fatto prete, e ancora Eugenio, venuto al mondo l'anno successivo. Poi era stata la volta di Anna, la prima delle femmine rimaste in vita. C'era stata prima di lei una bambina che non era sopravvissuta. Probabilmente le aveva lasciato in eredità il nome. Era poi seguita la nascita di Maria nel trentadue. Quindi era arrivata Luigina in quel fatale e sciagurato millenovecentoquaranta, quando il duce dal mascellone volitivo aveva trascinato la patria nel disastro. Infine, alla fine, era stata la volta di Rosa. Per la verità non era questo il suo nome. Tutti avevano preso a chiamarla così, come la mamma, a cui aveva dato il cambio su questa terra. Anna fa ancora più fatica a trarre dai ricordi i nomi degli altri che non ce l'hanno fatta. Ci sono stati Angelina e altri due gemelli morti prima che Annetta nascesse. Non è in grado di ricordare che molto vagamente neppure Caterina e Letizia, le gemelline nate nel trentatré, entrambe non avevano raggiunto i due anni di vita quando se ne dovettero andare. Nel trentasei erano nati altri due gemelli, un maschio e una femmina, la bambina si chiamava Lisetta, era vissuta poco più di un anno e mezzo. Troppo poco, ma abbastanza perché i genitori ne avvertissero lo strappo. Luigino sembrava aver avuto più fortuna. Non aveva accompagnato la sorellina nel suo viaggio, era vissuto fino a quattro anni.

La fine del fratellino è legata ad un'immagine che non dimenticherà mai. Anna ricorda che durante la notte seguente alla morte, a Luigino erano cresciuti i denti. A raccontarla così Anna ritrova lo sbalordimento che allora aveva provato. Lo seppellirono mentre la mamma concludeva l'ennesima gravidanza. Si ripeteva in quell'occasione quello che sempre accadeva ad ogni parto della mamma di cui lei ha memoria. Le zie e le donne con in testa la comare tranquillizzavano i bambini. Non c'era niente di cui aver paura. Anche in quell'occasione la scena si ripete Che andassero fuori per un po'. Al ritorno ci sarebbe stato un fratellino.

Anche allora fu così. Anche quella volta li avevano tranquillizzati. Anna ricorda che dopo il funerale erano tornati a casa e avevano trovato la nuova arrivata, la Luigina.

La mortalità infantile, dovuta principalmente alle affezioni respiratorie e alle malattie gastroenteriche, avrebbe conosciuto un relativo calo a partire dagli anni quaranta, attorno ai quali si ebbe la scoperta degli antibiotici e dei sulfamidici. Troppo tardi per i fratelli di Anna.
Lei fu colpita dal tifo, avrà avuto cinque o sei anni.
Mi tiravano i nervi, avevo le ghiandole gonfie, a volte mi sembrava di soffocare.
La febbre era molto alta e lei si sentiva debolissima. Aveva perso quasi tutti i capelli, pensava di restare calva per il resto della sua vita. Il medico, con la sua scienza, non aveva lasciato speranze. Aveva preso in disparte la madre.
- Prepara il vestitino per tua figlia.
Il vestitino con cui l'avrebbero seppellita. Sarebbe stato quello della festa, che l'avrebbe resa presentabile là dove sarebbe andata.

Molti furono quelli che morirono di tifo in quel periodo. Ma Anna sta ancora qui a raccontarla. Non andò come pensava il dottore. Il papà era andato dal prete, questi gli aveva dato dei soldi e gli aveva detto dove andare a prendere la medicina. Una iniezione miracolosa l'aveva rimessa in piedi. Salvata dagli antibiotici, dunque.

La mamma pensava vi entrasse anche, e soprattutto, l’intervento divino. Per rendere grazie a Dio la bambina era stata agghindata con un piccolo saio. Per un mese era stata segno visibile del miracolo di cui era stata beneficiaria. Si era portata in giro l'ostensione della gratitudine materna per il miracolo. Anna rievoca il disagio e la vergogna della bimba così conciata. In una religiosità in cui spirituale e materiale erano intrecciati, il ringraziamento doveva avere inevitabilmente un carattere visibile e pubblico. Si usava così. Era una delle tradizioni legate al culto di Sant'Antonio da Padova. Anna ricorda che il saio aveva un cordoncino bianco, lei non portava, come spesso accadeva, sotto il saio l'immagine del santo cucita su un pezzo di stoffa. Dobbiamo pensare che la mamma disperata avesse fatto un voto, alla Madonna o a qualche santo. In ogni caso i protettori celesti l'avevano ascoltata, la bambina sarebbe vissuta, almeno per questa volta il dolore sarebbe stato risparmiato. Del resto, il miracolo faceva parte del paesaggio spirituale di quegli anni. Non era per nulla incredibile. L'intervento benefico, riparatore, dei protettori celesti era del tutto naturale, se solo lo si fosse saputo impetrare con una fede massiccia e inattaccabile, come sfera di cristallo.

Il minimo che si potesse fare era rendere pubblico il debito contratto e la dovuta gratitudine per la grazia ricevuta. In seguito Anna ha saputo che, mentre la malattia infieriva e sembrava non poter essere fermata in alcun modo, la mamma aveva fatto un piccolo pellegrinaggio penitenziale. A piedi nudi era salita da Pregasso alla madonna della Rota. Quattro chilometri con i sassi che tormentano e feriscono i piedi valevano bene la salute di Anna. In quella piccola chiesa, da cui si vede gran parte del lago aveva detto le orazioni per la sua bambina. Forse trovava consolazione nell'immagine di Maria che prega di fronte al bimbo, coricato ai suoi piedi e il cui destino è segnato.

Peraltro, spesso sembrava che l'aiuto divino potesse più che non la medicina. Anna racconta un episodio che costituisce esempio di una specie di genere narrativo popolare, sulle mirabilia intorno alle virtù taumaturgiche del pret de Èl. Il famoso prete di Vello, la cui fama si spandeva nell'immediato dopoguerra anche fuori dal giro locale dei paesi, per raggiungere la dimensione provinciale. Accadde che un suo cugino di due anni non la smettesse mai di piangere, la zia era molto preoccupata, si trattava di una cosa che il dottore non riusciva a capire, non faceva che rassicurare.
Non è niente. Come è venuto, passerà.

Ma nessuno gli credeva. Dava delle medicine che non servivano a nulla. Lo capivano tutti che non sapeva che fare. Così la zia era andata dal prete dei prodigi e si era portata anche Anna. La diagnosi era stata netta e precisa, come accadeva abitualmente, secondo quanto attestano numerose altre testimonianze che coincidono al millimetro. Dopo le rituali preghiere e la benedizione, la prescrizione.
Vai a casa, disfa il cuscino e anche il materasso e distruggi quello che ci troverai dentro.

Ed effettivamente, racconta Anna, qualcosa c'era. Il cuscino era fatto di piume, alcune di queste si erano chissà come inestricabilmente annodate, avevano fatto un ciurciulù, un gomitolo inestricabile. Quello che aveva fatto quel gomitolo aveva stretto i fili così forte che doveva avere una forza da toro. Anche in questo caso la guarigione era seguita immediatamente, non appena il groviglio di piume fu bruciato nella stufa. Si tratta di un racconto molto simile a quelli che persone dell'età di Anna ed oltre vi potrebbero fare. Eventi dello stesso tipo di quelli che avvenivano presso il santuario di Caravaggio. C'è chi giura di aver visto dei posseduti che vomitavano sfere di vetro che, rompendosi per terra, liberavano penne dai meravigliosi colori sgargianti.

La madre li aveva lasciati. Anna doveva sostituirla. Per la verità già da tempo lei aveva dovuto restare a casa ad aiutare la mamma. Con tutta quella gente da curare e accudire, Rosa da sola proprio non ce la faceva. Per questo le avevano fatto smettere di frequentare dopo la terza classe delle elementari. Ma ora il peso era tutto su di lei. Era una bambina gracile, debole e ossuta. Le hanno raccontato che era nata di sette mesi, un esserino che stava in una tasca. Nessuno avrebbe scommesso sarebbe sopravvissuta, tanto che la mamma l'aveva avvolta nel bombàs, la bambagia, e ve l'era tenuta per circa un mese, una sorta di rudimentale culla termica fatta in casa. Dato che la bimba rimaneva mingherlina, anche in seguito la madre le prestava delle attenzioni particolari, ad esempio le riservava talvolta un uovo o le concedeva altri privilegi alimentari per sostenerla. La cosa non era passata inosservata. Uno dei fratelli aveva reagito all'ingiustizia e le aveva dato uno spintone. Il fuoco era acceso, Anna ci era caduta dentro ma subito ne era uscita limitando i danni.

Doveva badare a sei fratelli e al padre. Tutto sulle spalle di quella povera disgraziata che sono io. Rosa, la neonata che si era presa il nome della mamma, era stata affidata a una balia di Zone. La sua vacanza era durata solo otto mesi. La bambina era stata riportata a casa. La donna non poteva più tenerla: se ne andava in Francia, raggiungeva il marito che era già là a lavorare. Ora i fratelli da curare erano sette.

Tra le altre sue incombenze, Anna preparava la pappa per la sorella. Ricorda la ricetta. Prendeva la farina bianca, la spandeva nel forno della stufa, fino a quando il bianco della farina virava sul rosso-marrone. La farina tostata era poi raccolta in una scatola. Mescolata con un po' di latte e dello zucchero costituiva il pasto della bambina. Anna ricorda che era una pappa veramente buona, anche se a volte si avvertiva un retrogusto di cenere.

La bambina era dunque stata restituita alla sua famiglia e non era in buone condizioni, non solo per la fragilità fisica. Rosa aveva il braccio sinistro fasciato e continuava a piangere, era disperata. Anna ricorda quello che si verificò quando lei tolse le fasciature alla sorella. La parte del braccio vicino alla spalla era tumefatta, nel ricordo era tutto marcio. Se lo toccavi anche stando attenta la bambina si metteva ad urlare, le faceva molto male: meglio, la straziava. Era l'effetto di una complicazione della vaccinazione antitubercolare. Col tempo si sarebbe cicatrizzata, anche se ne porta ancora il segno.

Avvenne allora che un uomo, Anna non ha mai saputo chi fosse, che stava passando vicino a casa sua, evidentemente attirato dai lamenti disperati, era entrato nel cortile. L'uomo era salito fino al ballatoio ed era entrato nella camera dove stavano le bambine. Quella casa era sempre aperta, chiunque poteva entrare, il portone che dava sulla strada non era mai chiuso, non si aveva paura dei ladri, del resto c'era poco da portare via. No, non c'era proprio nulla da prendere.
Che succede, perché piange tanto?

Non c'era stato bisogno di dare tante spiegazioni: si capiva come stavano le cose, senza parole. Lo spettacolo di quell'indigenza fece effetto sull'uomo. Il giorno dopo lo sconosciuto si presentò portando con sé del caffè e dello zucchero. Chi era? Anna non l'ha più rivisto ed è convinta fosse un partigiano. Come vedremo, sul monte sopra il paese, alla Croce di Marone i nazifascisti compirono una strage di partigiani e diedero alle fiamme molte cascine, in quella che fu la prima battaglia della Resistenza bresciana, nel novembre del quarantatré. In quel periodo di confusione, dopo gli stravolgimenti dell'otto settembre, molti uomini, molti ragazzi sbandati e impauriti popolarono anche le nostre montagne. Vi si trovava di tutto. C'erano quelli che poi scelsero la lotta armata, e molti di questi non videro la fine della guerra, e c'erano coloro che, all'occasione, avrebbero accettato ogni soluzione pur di cavarsela, di portare a casa la pelle. Tutti però avevano bisogno di mangiare. Se, come Anna pensa, si trattò di un partigiano è significativo che fosse un donatore.

In ogni caso, questo episodio fa parte di un piccolo gruppo di fatti che accaddero ad Anna e di cui parleremo.  Fatti in cui si realizzava, Anna ne è convinta, qualcosa che ha a che fare da vicino con la provvidenza. Un parziale risarcimento offerto dal destino.

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